La salute mentale e i suoi disturbi. Attaccamento patologico: finchè morte non ci separi

L'approfondimento del prof. Zoccali dell'Istituto di Neuroscienze di Reggio Calabria

Zoccali

Come riportato già nel precedente articolo, la teoria dell’attaccamento – sviluppata a partire dagli studi di John Bowlby – accredita l’ipotesi che le prime esperienze relazionali che si hanno da piccoli con le figure accudenti, influenzano profondamente il nostro modo di amare in età adulta. Chi ha sperimentato cure incoerenti o rifiuto, può sviluppare un modello di attaccamento insicuro; tale attaccamento, però, può strutturarsi anche in caso di percezione distorta del comportamento genitoriale da parte del bambino.

Un esempio classico è la presenza di un fratello che, per problemi di salute, catalizzi maggiori attenzioni da parte dei genitori: il fratello, in tal caso,  può interpretare il comportamento genitoriale come rifiuto o mancanza di amore.

L’attaccamento insicuro, subito o percepito può tradursi, da adulto, in relazioni segnate dal bisogno eccessivo di conferme, dalla paura dell’abbandono e dalla difficoltà a fidarsi e determinare, quindi, relazioni affettive disfunzionali che oscillano tra passione e dolore, tra intimità e conflitto.

Le coppie dichiarano di amarsi, ma nella quotidianità vivono l’inferno: litigi costanti, gelosie, silenzi punitivi. In tale contesto l’amore, più che un sentimento, è una catena invisibile che lega la coppia a una sofferenza reciproca.

Mentre in una relazione sana, l’amore funziona come base sicura: ci si sostiene, ci si conforta, ci si lascia liberi di crescere, in un legame patologico la dinamica è capovolta: la presenza dell’altro non rassicura, ma genera ansia, l’assenza, di contro, scatena un senso di vuoto. Si resta intrappolati in un circuito di dipendenza emotiva, fatto di rotture e riavvicinamenti, promesse e tradimenti. 

Nelle relazioni sane e funzionali, la stabilità nasce dall’equilibrio e dalla reciprocità dei benefici condivisi: entrambi i partner traggono soddisfazione e sostegno dal legame, e le decisioni sono frutto di un confronto aperto e rispettoso.

In quelle segnate da un legame disfunzionale, invece, la convivenza non si fonde sul benessere comune, ma su dinamiche emotive che, in maniera più o meno consapevole, portano uno dei partner a limitare o prevaricare la capacità di autonomia dell’altro. In questi contesti, le scelte non emergono da una reale libertà interiore, ma vengono progressivamente orientate, influenzate o manipolate, fino a modellarsi secondo la volontà di chi esercita il controllo. Il risultato è una relazione che appare stabile all’esterno, ma che internamente si regge su un disequilibrio di potere, dove la libertà decisionale di uno viene sacrificata per mantenere il predominio dell’altro.              

“Perché non si lasciano?” ci si chiede.

Tra le numerose motivazioni che inducono una coppia che “scoppia” a non lasciarsi, motivazioni che spesso sono differenti nei singoli coniugi, e che trascendono gli aspetti psicologici, possiamo prendere in analisi il “disturbo” dell’attaccamento che, se presente di solito in uno dei due partner richiama il concetto di trauma bonding.

In tal caso la caratteristica centrale è l’alternanza ciclica di: fasi di “abuso/controllo” → critiche, svalutazioni, minacce, e tentativi di prevaricazioni e fasi di riconciliazione/apparente amore → scuse, gesti affettuosi, promesse di cambiamento. Questo ciclo impone la presenza sempre in chiave psicologica di un abusante e di una vittima, l’abusante manipola la vittima ama e determina nella stessa una sorta di dipendenza: la sofferenza vissuta nelle fasi negative amplifica la gratificazione delle  fasi positive, si struttura un meccanismo di ricompensa intermittente e il conflitto stesso diventa parte integrante del rapporto: litigare, minacciare la rottura, per poi riconciliarsi in un abbraccio, produce una scarica di adrenalina che può risultare quasi “dopante”.

Uniti fino alla morte

La cronaca nera testimonia come l’attaccamento patologico possa evolvere in forme estreme di violenza, fino a culminare in episodi di omicidio-suicidio di coppia. Tuttavia, non è necessario giungere a tali drammatiche conseguenze per riconoscere la pericolosità di un legame disfunzionale: anche in assenza di violenza fisica, molte relazioni tossiche finiscono per consumare progressivamente le risorse emotive, psicologiche e persino somatiche dei partner coinvolti.

Il difficile cammino verso la libertà

Uscire da un attaccamento patologico non è semplice. Implica riconoscere che ciò che viene percepito come “amore” è in realtà una forma di dipendenza. Spesso è necessario un percorso terapeutico per imparare a distinguere tra amore e bisogno, tra intimità e possesso. L’intervento basilare è mirato a  spezzare l’isolamento: molte di queste coppie si chiudono in un mondo a due, rinunciando a legami sociali e familiari che potrebbero offrire sostegno. Ritrovare una rete di affetti esterni, coltivare interessi personali, riscoprire la propria autonomia sono passi cruciali per liberarsi da un legame che somiglia più a una prigione che a una casa.

Conclusione

Parlare di attaccamento patologico significa gettare luce su una realtà frequente e spesso invisibile. Dietro l’immagine romantica di un amore “forte e indissolubile” può celarsi un legame di sofferenza che, se non riconosciuto, rischia di distruggere entrambi i partner. L’amore non dovrebbe mai essere sinonimo di catene: se un legame ci soffoca, forse non è amore, ma paura di restare soli. Comprendere questa differenza è il primo passo per trasformare le relazioni da gabbie di dolore in spazi di libertà condivisa.

Prof. Rocco A. Zoccali