Reggio, operazione 'Pedigree': le accuse per gli indagati

Le investigazioni, svolte dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, hanno portato alla luce un quadro criminale ben delineato

Le indagini svolte dalla Squadra Mobile – sotto le direttive dei Sostituti Procuratori della D.D.A. di Reggio Calabria Stefano MUSOLINO, Walter IGNAZITTO, Paola D’AMBROSIO e Diego CAPECE MINUTOLO – documentano l’esistenza e l’operatività delle potenti cosche SERRAINO e LIBRI ed offrono uno spaccato estremamente chiaro delle dinamiche criminali delle predette cosche di ‘Ndrangheta operanti, attraverso le loro articolazioni territoriali, nel quartiere di San Sperato e nella frazione Gallina, nonché nel comune di Cardeto [RC] e in Gambarie d’Aspromonte, soprattutto nel settore delle estorsioni in danno di imprenditori e commercianti locali, nell’imposizione con violenza e minaccia di beni e servizi e nell’impiego dei proventi delle attività delittuose in esercizi commerciali nel campo della ristorazione [bar] e della vendita di frutta, intestati a compiacenti prestanomi allo scopo di eludere l’applicazione delle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali e il sequestro delle imprese ai sensi della normativa antimafia.

L’inchiesta ha avuto inizio l’1 settembre 2017 quando gli investigatori della Squadra Mobile di Reggio Calabria catturavano [unitamente ai colleghi dell’Arma dei Carabinieri], all’interno di un immobile di Reggio Calabria, il latitante CORTESE Maurizio1, sottrattosi all’esecuzione di un provvedimento di residuo pena [7 anni ed 1 mese di reclusione] di pregresse condanne riportate per i delitti di associazione mafiosa, tentata rapina, tentata estorsione in concorso e violazione della normativa in materia di armi.

I reati per i quali il CORTESE era stato condannato erano, già di per sé, rappresentativi della sua caratura criminale e denotavano la sua piena appartenenza alla ‘Ndrangheta ed in particolare alla sua articolazione territoriale riconducibile alla cosca SERRAINO.

Le investigazioni – svolte dalla Squadra Mobile con l’irrinunciabile strumento delle intercettazioni – consentivano di confermare la piena operatività della cosca SERRAINO e di accertare:

  • come sia penetrante ed attuale il controllo criminale esercitato dagli appartenenti all’associazione mafiosa in argomento sul territorio di competenza [comprendente i quartieri cittadini di San Sperato, Modena, Arangea, Cataforio, Mosorrofa e dei comuni di Cardeto e Santo Stefano d’Aspromonte];
  • come la stessa abbia in sé tutti gli elementi caratterizzanti un sodalizio di stampo mafioso, ovvero un’organizzazione stabile ed efficiente, in virtù della quale è in grado di porre in essere quel controllo criminale di cui al punto che precede, mediante la propria, specifica, forza di intimidazione e la conseguente condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva;
  • l’attuale pericolosità della cosca e la sua capacità di diversificare i propri interessi illeciti, in quanto in grado di perpetrare, attraverso i suoi esponenti, delitti di diversa specie e natura, tutti però da considerarsi finalizzati a realizzare i suoi scopi.

Il vertice della predetta articolazione della ‘Ndrangheta è oggi rappresentato da CORTESE Maurizio, genero di PITASI Paolo [don Paolo Pitasi] che era stato uno dei principali collaboratori di Francesco SERRAINO, noto come il “boss della montagna”, assassinato durante la seconda guerra di ‘Ndrangheta. Nel corso degli anni, CORTESE Maurizio ha acquisito una sempre maggiore importanza nell’ambito dei gruppi mafiosi, riuscendo ad arrivare ai vertici della cosca SERRAINO, con specifica competenza territoriale nel quartiere di San Sperato, grazie anche ai rapporti che ha saputo coltivare, durante la sua carcerazione con alcuni rappresentanti carismatici di altre consorterie della ‘Ndrangheta reggina.

Lo strettissimo legame del gruppo CORTESE con la cosca LABATE [intesi i “Ti Mangiu”] è stato al centro delle dichiarazioni del collaboratore di Giustizia LIUZZO Giuseppe Stefano Tito ma emerge anche dagli scambi epistolari tra i detenuti CORTESE Maurizio e LABATE Pietro, capi della due consorterie criminali, nonché dalle parole di stima ed ammirazione che, nei confronti del CORTESE, spendeva Antonino LABATE, intercettato nell’ambito dell’indagine coordinata dalla D.D.A. che agli inizi di quest’anno ha portato all’esecuzione dell’operazione Heliantus ad opera della Squadra Mobile.

Inoltre la stessa presenza di alcuni esercizi commerciali riconducibili a soggetti affiliati al sodalizio criminale guidato da CORTESE Maurizio come il “Lotus Cafe” e “Royal Cafe” di FILOCAMO Antonino e il bar “Mary Kate” ascrivibile a MORABITO Domenico [detto “Belli capelli”] sul Viale Calabria [in piena zona LABATE] ne è la chiara dimostrazione.

Ed ancora i contatti tra CORTESE Maurizio e il suo affiliato Antonino FILOCAMO confermano lo stretto vincolo esistente con la ‘ndrina LABATE e, in particolare, con uno dei suoi colonnelli individuato in Orazio ASSUMMA2. Proprio a quest’ultimo faceva riferimento FILOCAMO Antonino quando chiedeva a Maurizio CORTESE di interessare Orazio ASSUMMA al fine di riferirgli di far spostare, dal Viale Calabria, il bar “Mary Kate” di MORABITO Domenico, a suo tempo aperto con il benestare della famiglia LABATE – sulla base di un rapporto di solida amicizia e di un legame di proficua collaborazione tra le rispettive “famiglie” – proprio perché quell’esercizio commerciale era un’attività di diretto interesse di CORTESE.

Il rapporto di collaborazione tra la cosca SERRAINO e quella dei LABATE è altresì denotato dai contatti tra Stefania PITASI e Benito “Chicco” LABATE, figlio di Antonino LABATE3 e nipote del boss Pietro. La PITASI infatti, adempiendo alle sue consuete funzioni di “postina”, consegnava al rampollo dei “Ti mangiu” una lettera proveniente da Maurizio CORTESE, concernente alcuni “lavori” di interesse del detenuto. Nel corso delle intercettazioni, per di più, i sodali rievocavano una cena cui avevano partecipato Maurizio CORTESE, suo suocero Paolo PITASI e “compare Pietro”, ovvero il boss di Gebbione Pietro LABATE.

Quanto alla cosca LIBRI di Cannavò, occorre evidenziare che taluni dissidi [manifestati, in particolare, da Paolo PITASI4] non hanno impedito un fattivo e proficuo dialogo ogni qual volta si è posta l’esigenza di risolvere problematiche comuni.

In tal senso appare emblematica, innanzitutto, la vicenda relativa all’intervento del PITASI in favore di un dentista, destinatario di richieste estorsive nella frazione Gallina. Nella circostanza Paolo PITASI [coadiuvato da BARBARO Antonino, DE LORENZO Salvatore Paolo e Bruno NUCERA, esponenti della cosca SERRAINO] ha incontrato l’indagato MORABITO Sebastiano [“compare Bastiano”], nella sua qualità di esponente di vertice del gruppo mafioso dei LIBRI a Gallina in modo da perorare la causa del professionista assicurandogli la protezione della cosca.

Estremamente significativi sono inoltre i contatti intrattenuti da Antonino BARBARO con due esponenti apicali della cosca LIBRI: Giuseppe SERRANÒ [detto Peppe di Ceddi5], apprezzato per la sua straordinaria affidabilità criminale, e Antonio [Totò] LIBRI6. Circostanza emersa quando – a seguito del danneggiamento subito da una pizzeria di proprietà di un soggetto vicino al gruppo CORTESE, i sodali si attivavano per cercare di identificare gli autori dell’intimidazione. Trattandosi di un esercizio commerciale ricadente nella zona di influenza dei LIBRI, BARBARO Antonino affermava di essersi già confrontato con Totò LIBRI, da lui conosciuto come l’attuale reggente di quella cosca e con il quale vantava un rapporto di costante e rispettosa collaborazione.

Sono stati accertati, inoltre, rilevanti contatti con la famiglia DE STEFANO-TEGANO. In particolare appaiono documentate le relazioni con Luigi [Gino] MOLINETTI7, storico esponente del potente clan di Archi. Nell’ottobre 2018, PITASI Stefania parlava con DE LORENZO Salvatore Paolo di una lettera che le era stata inviata dal carcere dal marito CORTESE Maurizio. Al riguardo, il DE LORENZO le riferiva di essersi già attivato per organizzare un incontro con un soggetto di Archi, secondo le direttive ricevute del boss detenuto. Nel successivo mese di novembre 2018, DE LORENZO Salvatore Paolo discuteva con PITASI Stefania dell’imminente apertura del bar “Shine” e della necessità di stipulare un contratto di fornitura di acqua minerale con una ditta di MOLINETTI. In quella circostanza PITASI Stefania, però, mostrava qualche perplessità, non avendo ancora ricevuto il nulla osta del coniuge Maurizio CORTESE, né del padre Paolo PITASI, ma DE LORENZO le riferiva che era stato proprio CORTESE a richiedere il contatto con Gino MOLINETTI, indicato, cripticamente, solo con alcune sillabe [“MO-LI”] del suo “ingombrante” cognome, inviandogli alcune “imbasciate” che egli stesso aveva recapitato al noto ‘ndranghetista di Archi.

Il primo contatto con MOLINETTI, su mandato di CORTESE, era stato avviato quando era stata aperta la panetteria “Da Nonna Lavinia Pane e Fantasia” a Reggio Calabria. Trattandosi di un esercizio commerciale insistente in una zona non sottoposta al controllo della cosca dei SERRAINO, bensì sotto il dominio della cosca DE STEFANO- TEGANO, nel rispetto delle regole della `Ndrangheta, DE LORENZO, per ordine di CORTESE, aveva allertato Luigi MOLINETTI, sia per ottenere il necessario nulla osta all’apertura, sia per ricevere aiuto nell’accaparramento di clienti. Un’ ulteriore “imbasciata” era stata recapitata a MOLINETTI affinché si interessasse, in ragione dei buoni rapporti con CORTESE, al reperimento di macchinari aziendali necessari per l’apertura di un esercizio commerciale.

Ancora, nel maggio 2019, all’atto dell’apertura del nuovo negozio di frutta e verdura intestato a Bruno NUCERA, Salvatore Paolo DE LORENZO – che di fatto lo gestiva – aveva ricevuto la visita di un fornitore di formaggi, accompagnato da Gino MOLINETTI. Quest’ultimo, che si era portato nel negozio per “presentarsi”, aveva cambiato atteggiamento trovandosi di fronte il DE LORENZO, che evidentemente conosceva come esponente della cosca SERRAINO. DE LORENZO aveva quindi spiegato di avere iniziato la gestione della rivendita di frutta e verdura per fare un favore a “suo compare”, ovvero al detenuto Maurizio CORTESE. Di fronte a tale osservazione, MOLINETTI aveva ostentato solidarietà nei confronti del boss di San Sperato, imprecando e dolendosi per la sua perdurante condizione detentiva.

I buoni rapporti della cosca SERRAINO con il gruppo di Gino MOLINETTI si colgono anche da un’ulteriore vicenda relativa ad alcuni investimenti nel settore della distribuzione del caffè, su richiesta del detenuto Maurizio CORTESE. In tale contesto si registrava l’alacre operatività di Antonino BARBARO che si poneva alla ricerca di preventivi per l’acquisto delle auspicate forniture. BARBARO parlava a Stefania PITASI dell’opportunità di acquistare il caffè commercializzato da Tonino FOTI, operante nei pressi di piazza Carmine di Reggio Calabria. Il prezzo praticato da FOTI si rivelava particolarmente vantaggioso grazie all’intermediazione di esponenti delle cosche di Archi e BARBARO si era presentato dal commerciante insieme a dei soggetti appartenenti all’entourage criminale del MOLINETTI, inducendo il venditore ad applicare un forte sconto sul prezzo di mercato [senza alcun rincaro rispetto al prezzo che era praticato al commerciante dal suo fornitore].

Di sicuro rilievo risultano poi i contatti con Gaetano CHIRICO nipote del defunti boss Paolo e Giorgio DE STEFANO, storici capi della più temibile cosca di Archi, nonché figlio di Francesco CHIRICO8. Gaetano CHIRICO si recava presso l’abitazione di Paolo e Stefania PITASI, per discutere di alcune incomprensioni con Bruno IARIA classe 1977, cognato di Maurizio CORTESE. Prima di affrontare IARIA, CHIRICO aveva sentito l’esigenza di avvisare i PITASI e, per il loro tramite, lo stesso CORTESE, visti i rapporti di “fraterna amicizia” che legavano i due.

Dalle attività di indagine è emersa la capacità dell’organizzazione mafiosa capeggiata dal CORTESE di supportare economicamente i detenuti e i loro familiari con finanziamenti derivanti dai proventi estorsivi. Ed invero, durante la carcerazione, CORTESE e i suoi familiari sono stati aiutati da numerosi sodali. Un importante contributo è stato assicurato da BARBARO Antonino, MORABITO Domenico e FILOCAMO Antonino. MORABITO Domenico aveva il compito di accompagnare Stefania PITASI ai colloqui con il marito presso la Casa Circondariale di Torino, facendosi interamente carico delle spese del viaggio. BARBARO Antonino si occupava delle assunzioni lavorative di affiliati o comunque di soggetti legati al sodalizio. Informava costantemente PITASI Stefania e quest’ultima il padre Paolo sulla spartizione dei posti di lavoro tra i componenti dell’associazione criminale, secondo criteri che rispondevano alle logiche organizzative e gerarchiche tipiche della ‘Ndrangheta. BARBARO si era anche prodigato per trovare una sistemazione lavorativa a un soggetto vicino ai DE STEFANO. Analogamente al BARBARO, anche FILOCAMO Antonino sosteneva la famiglia di CORTESE Maurizio chiedendo somme di denaro a titolo estorsivo ad alcuni esercenti per il mantenimento del boss detenuto.

Nonostante fosse detenuto nel carcere di Torino, CORTESE Maurizio riusciva a gestire gli affari illeciti della cosca attraverso i colloqui con la moglie PITASI Stefania e FILOCAMO Antonino, mediante un costante rapporto epistolare con gli affiliati, in particolare con la moglie, nonché con l’utilizzo di dispositivi cellulari introdotti abusivamente all’interno della struttura carceraria e infine avvalendosi del servizio di messaggistica “email” attivo nella struttura di detenzione.

PITASI Stefania Maria ha operato costantemente come postina della cosca guidata dal coniuge CORTESE Maurizio, trasmettendo messaggi [imbasciate] e informazioni essenziali per l’operatività del gruppo mafioso e per l’esercizio della funzione di comando del CORTESE. Quest’ultimo, pur essendo detenuto, ha continuato a svolgere le sue funzioni di capo cosca, impartendo direttive dal carcere per eseguire estorsioni e pianificare intestazioni fittizie di beni, grazie innanzitutto ai colloqui con la moglie, alla corrispondenza epistolare ed elettronica e ai telefoni cellulari clandestinamente introdotti in cella.

Il CORTESE utilizzava dunque lettere formalmente indirizzate alla moglie per impartire disposizioni ai membri della cosca, che la donna provvedeva a far recapitare. In particolare, dava disposizioni all’affiliato DE LORENZO su come comportarsi in occasione della riscossione delle estorsioni da imprenditori e commercianti. In una circostanza, tramite una lettera diretta alla PITASI, CORTESE si era lamentato dei modi alquanto garbati che, a suo parere, DE LORENZO era solito usare nei confronti dei soggetti che manifestavano difficoltà nei pagamenti. In buona sostanza il capo cosca avrebbe voluto che il suo affiliato – in caso di inottemperanza alle richieste – passasse alle maniere forti, in modo da imporre il rispetto degli impegni presi [“… perché non hai preso un nervo per dare una ripassata a quattro, cinque o per andare ad importi…]. DE LORENZO, dal canto suo, si mostrava infastidito dalle incomprensioni con il boss detenuto e pretendeva il rispetto che gli era dovuto in ragione della sua fedele affiliazione alla cosca SERRAINO [“dote” a suo tempo conferitagli dalla casa madre della consorteria dei SERRAINO “della montagna”] ma era favorevole a seguire le leggi della cosca, sottolineando di non avere problemi ad adempiere persino a mandati omicidiari, laddove fosse stato necessario per dare attuazione alle regole della ‘Ndrangheta, [“Se devo andare a sparare ad uno, vado”].

Con le medesime modalità operative, Maurizio CORTESE intratteneva rapporti epistolari anche con Domenico SCONTI, genero del defunto Francesco SERRAINO detto il “boss della montagna”.

Dall’indagine emergevano, inoltre, diversi elementi che dimostrano come CORTESE Maurizio, grazie alla corruzione di un agente di polizia penitenziaria e al costante supporto dei sodali Antonino BARBARO, Antonino FILOCAMO, Salvatore Paolo DE LORENZO, PITASI Paolo e PITASI Stefania, nonché di altri detenuti, avesse a disposizione telefoni cellulari e alcune schede “citofono” con le quali riusciva a comunicare riservatamente con l’esterno, impartendo disposizioni sia alla moglie che ad altri sodali attinenti alle dinamiche e alle attività delittuosa della cosca di cui continuava a tenere le redini nonostante lo stato di detenzione carceraria. Era lo stesso CORTESE a spiegare, nel corso di una conversazione captata nel mese di aprile 2019, come fosse riuscito ad introdurre all’interno della Casa Circondariale l’apparecchio telefonico e nel fare riferimento a “guardie corrotte” affermava che uno degli agenti penitenziari [non identificato], dietro pagamento di 500 euro, si era prestato a consegnargli abusivamente il telefono. L’apparecchio cellulare veniva rinvenuto, il 9 aprile 2019, nel corso di una perquisizione della cella di CORTESE Maurizio. Nel maggio 2019 – dopo il sequestro del telefono e il trasferimento in un altro carcere – il boss ricominciava ad utilizzare il metodo di comunicazione epistolare.