Caso prof. De Lio, la docente reggina: ‘Le ‘assenze per 20 anni’ sono una falsità’

"Quella delle assenze è una tesi infondata nella realtà, non credibile ed è una tesi 'nuova"

Cinzia Paolina

Con questo secondo comunicato si continua a scardinare l’architettura di cui la stampa nazionale, ad esclusione di alcune eccezioni, si è resa portavoce per l’intera trascorsa settimana in merito alla vicenda lavorativa e giudiziaria senza precedenti nella storia della Repubblica della docente di filosofia e storia Cinzia Paolina De Lio, per come avviata dal dirigente scolastico alla sede di Chioggia.

Nel precedente comunicato sono state esposte circostanze gravissime per uno stato di diritto.

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Si è già chiarito – puntualmente citando atti di causa e fonti normative – che la prof. De Lio non è mai stata destinataria di provvedimento di “destituzione” da parte del Ministero dell’Istruzione giacché il suo dirigente scolastico ha emesso nei suoi riguardi un “decreto di incapacità didattica”.

Si è già posto in rilievo, altresì, che dell’ asserita “destituzione” della professoressa Cinzia Paolina De Lio non vi è cenno alcuno negli atti e nella sentenza di primo grado e che essa appare per la prima volta – dal nulla – nella sentenza d’appello poi pedissequamente riportata
nella sentenza di Cassazione: ne deriva l’assenza di qualsivoglia fondamento giuridico procedurale.

Ci si sofferma in questo secondo comunicato sulla tesi – anch’essa apparsa dal nulla – delle assenze di 20 anni su 24 di servizio, che tanto è piaciuta a certa stampa.

La questione delle assenze impone, altresì, una riflessione sull’operato della Corte d’appello di Venezia e della Corte di Cassazione.
Per esigenza di sintesi si affronterà in questo secondo comunicato esclusivamente il secondo aspetto, ossia il profilo del diritto, rinviando la verità storica ad altro momento.

Caso de Lio, ”assenze per 20 anni’? Una tesi ‘nuova’

Quella delle assenze è una tesi infondata nella realtà, non credibile anche a prima vista e senza conoscere i fatti e gli atti da parte di chiunque sia dotato di pur minimo discernimento ma, soprattutto, è una tesi “nuova” che come tale non avrebbe potuto essere proposta nel ricorso d’appello a pena di rendere lo stesso inammisibile, secondo dottrina e giurisprudenza.

Ed invece questa tesi “nuova” il Miur ha introdotto nel suo ricorso in appello, che pur così inammissibile è invece stato ammesso dalla Corte d’appello di Venezia e poi confermato dalla Cassazione.

E’ questo il secondo, gravissimo, “nodo” critico dopo quello sulla “destituzione” trattato nel precedente comunicato.
Tale nodo inestricabile emerge dalla lettura della sentenza della Cassazione n.17897/2023 comparata con alcuni principi fondamentali del Diritto affermati nel Codice di procedura civile vigente in questa Repubblica.

La procedura, si sa e sarebbe banale ricordarlo, non può essere “interpretata” come possono esserlo le leggi ma deve essere rigidamente “applicata”. In uno “stato di diritto”, ovviamente.

Vediamo cosa dice la dottrina.

Secondo il dispositivo dell’art. 342 del Codice di procedura civile “l’appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico:

1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato;
2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado;
3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

Secondo l’art. 345 primo comma del codice di procedura civile “nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio…”.

I motivi del recesso, insomma, non possono essere modificati in corso di causa, come invece è stato fatto in danno della professoressa De Lio.

La domanda ‘nuova’ in appello del Miur

La domanda “nuova” in appello consiste nell’esposizione di fatti costitutivi del diritto radicalmente diversi da quelli dedotti in primo grado che comportano un ampliamento del thema decidendum, cioè della questione principale sottoposta al giudice di prime cure, ampliamento inaccettabile in un secondo grado di giudizio perché su di essi non ha avuto luogo un contraddittorio e tale da rendere
inammissibile il ricorso in appello con pronuncia declinatoria di rito.

Il divieto assoluto di proporre domande nuove ha la funzione di garantire a tutti i cittadini la certezza del diritto attraverso la piena attuazione del principio del doppio grado di giurisdizione.

Il giudice veneziano dell’appello ha accolto il ricorso del Miur seppur lo stesso fosse inammissibile ai sensi dell’art 345 cpc, perché fondato su fatti diversi da quelli fatti valere in primo grado. La Suprema Corte ha validato l’operato della Corte d’appello di Venezia emettendo la sentenza Cass Civile lavoro n.17897 di condanna della professoressa De Lio.

Dalla lettura congiunta delle sentenze dei tre gradi di giudizio emerge un palese conflitto con il dettato del Codice di procedura civile.
Vi è di più: nella sentenza di Cassazione n.17897 – che conferma la sentenza d’appello della prof. De Lio accogliendo e replicando la questione “nuova” delle assenze – la Suprema Corte smentisce se stessa creando un corto circuito schizofrenico gravissimo con altre sue sentenze di cui una a Sezioni Unite seppur penali.

La causa petendi è la ragione giustificativa, il fondamento della pretesa che si fa valere in giudizio e consiste nel diritto sostanziale affermato a giustificazione dell’oggetto della domanda. Il codice di procedura civile parla di “fatti ed elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda”.

Ed infine, con la Sentenza a Sezioni Unite n. 8825/2017, seppur trattasi di sezioni penali, la Cassazione si esprime in modo lapidario in tema di ammissibilità dell’atto di appello non correlato alla decisione impugnata: l’appello (al pari del ricorso per Cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata.

Mentre, dunque, pacificamente la Corte di Cassazione in tutte le sue sentenze in materia di “nuova” introduzione nel giudizio di appello si esprime per l’inammissibilità del ricorso, per la prima volta nella storia della Repubblica la stessa Suprema Corte condanna la prof. De Lio che è stata la vittima dell’introduzione di un tema nuovo in appello.

Si ricorda, difatti, che ad avviare l’azione giudiziaria contro la prof. De Lio non è stata alcuna contestazione di presunte “numerosissime assenze” bensì la presunta “incapacità didattica” contestatale dal dirigente scolastico nel 2017 che a sua sola firma ha decretato che la prof. Cinzia Paolina De Lio, “ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 512 del D. Lgs. 297/1994, è dispensata dal servizio per incapacità didattica”. Il primo grado di giudizio, pertanto, si è svolto riguardo all’unico tema contestato dal dirigente, l’ “incapacità didattica” e non riguardo “le assenze” .

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Le “numerosissime assenze”, oltre a non essere storicamente esistenti, compaiono dal nulla nel ricorso in appello introdotto dal Miur.

Una sentenza di Cassazione fondata sulla replica di una sentenza d’appello che per la prima volta nella storia della Repubblica ha accolto l’introduzione di un motivo “nuovo” proposto dall’appellante “nonostante” il dettato del Codice di procedura civile vigente in questa Repubblica provoca inquietanti riflessioni e suscita non pochi interrogativi sulla deriva dello “stato di diritto”.