Accoglienza e cultura del Mediterraneo: Reggio accetta la sfida SabirFest
27 Ottobre 2018 - 11:20 | di Vincenzo Comi

di Federica Campolo – Anche quest’anno la città metropolitana di Reggio Calabria ha accolto la proposta lanciata dal SabirFest, il festival che promuove la cultura e la cittadinanza nel Mediterraneo, attraverso una serie di iniziative ed eventi sul territorio. Articolato in tre sezioni (SabirFestival, SabirLibri e SabirMaydan), il Festival del Mediterraneo ha declinato il tema dell’identità culturale dei popoli del Mare Nostrum attraverso lo slogan “Riparare l’Umano”, motto che ha rappresentato il fil rouge dei vari appuntamenti in programma. Conferenze, dibattiti, spettacoli hanno coinvolto Reggio, Messina e Catania in un evento che aspira a valicare i confini regionali e nazionali e coinvolgere quante più città possibili. Positiva è stata la risposta dei reggini che hanno colto la portata culturale e sociale dell’iniziativa. Aderire ad un progetto che recupera il valore dell’accoglienza, nell’ottica del progresso e dello sviluppo economico, significa divenire promotori, giorno dopo giorno, di azioni concrete e di impegno sociale. Quali soluzioni per Reggio Calabria si prospettano all’indomani del Sabir? Può la Città Metropolitana trarre dalle proprie radici culturali la linfa per una nuova fioritura sul Mediterraneo? Ai microfoni di CityNow.it Maria Lucia Parisi, organizzatrice del SabirFest 2018.
Cos’è per lei il SabirFest? Quali valori vuole trasmettere?
Sabir per me è Mediterraneo. Mediterraneo come mare che unisce e crea opportunità. Sabir per me è riscoprire i contatti linguistici, sociali e culturali che legano le popolazioni affacciate sul Mediterraneo. Sabir è anche “bene comune”: per la città rappresenta un’opportunità di crescita, un’occasione per tessere e consolidare delle relazioni. Sono convinta che la Calabria potrà rafforzarsi ed emergere solo se saprà fare rete.
Perché oggi è difficile parlare di accoglienza?
La cultura dell’accoglienza è insita nella gente del sud; purtroppo però la paura dell’altro e la scarsità di risorse economiche, fanno aumentare quel senso di intolleranza che ci fa reagire male e ci induce a chiudere le porte e i porti. Il “no” all’accoglienza a cui stiamo assistendo è dovuto alla paura: è come se non ci si sentisse più protetti dallo Stato, come se non ci fosse più alcuna sicurezza. Per cui, nell’insicurezza, tutti diventano nemici.
Cosa significa “Riparare l’umano”?
Lo slogan “Riparare l’umano” è stato declinato giocando con il duplice significato del verbo “riparare”, inteso nel significato di “proteggere, mettere al sicuro”, ma anche nel senso di “sistemare, ricostruire”. In Giappone, quando un oggetto si rompe, lo si ripara inserendo dell’oro nella crepa: si è convinti che l’uso del metallo prezioso nella fenditura possa rendere il manufatto ancora più pregevole. In occidente, invece, in un’epoca di feroce consumismo, non si ripara più niente: per questo dobbiamo imparare a riparare ciò che va in frantumi, iniziando dai valori che orientano le relazioni umane. Praticare l’accoglienza significa voler rimediare ai danni che noi occidentali abbiamo arrecato ai cosiddetti paesi sottosviluppati; significa impegnarsi a risanare il senso di condivisione e appartenenza ad una comunità globale e porre rimedio al problema dell’inquinamento. Il consumismo a cui siamo stati abituati si è ritorto contro di noi in qualsiasi settore della vita: dal cibo ai sentimenti, dalla materia all’anima.
Qual è la causa a cui ricondurre le fratture ideologiche, sociali e culturali del nostro tempo? Quali gli scenari che si prospettano?
Il capitalismo dei paesi, cosiddetti, “sviluppati” ha generato non poche storture. Si tratta tuttavia di un ciclo economico destinato ad esaurirsi e dare vita ad un altro ciclo, che non sarà prettamente capitalistico ma che probabilmente avrà uno sfondo di economia sociale. Quando a Reggio iniziano ad aprire Centri di Medicina Solidale, attività commerciali fondate sulla logica dell’economia sociale, si inizia a capire che questo nuovo ciclo non solo è possibile, ma sta iniziando. Sicuramente si tratta di un processo che necessita di tempo e sperimentazioni. Se si pensa all’esistenza di piccoli paesini che grazie all’ immigrazione riescono a rinnovare le attività e diventare una risorsa economica per il territorio, si comprende quanto sia importante investire sull’autosostenibilità dell’immigrazione. In molti paesini in via di spopolamento, il costo della vita è di gran lunga inferiore rispetto a quello di una grande città; quei paesini potrebbero diventare dei centri di produzione, dei nuovi “poli industriali”. Questo è il futuro a cui guardiamo.
Qual è il messaggio che vuole lanciare a chi i valori del SabirFest li vive tutto l’anno?
Il messaggio più importante che un evento come il Sabir vuole trasmettere è quello di imparare a fare rete, riscoprendo i valori che ci appartengono da sempre e guardando all'”altro” come ricchezza, come concreta opportunità di crescita. Quello che suggerirei a chi vive il Sabir tutto l’anno è di continuare ad impegnarsi nel sociale e fare la differenza nelle piccole scelte quotidiane.
I numerosi spunti di riflessione e le proposte scaturite dalla fucina del SabirFest sono stati accolti con entusiasmo dall’Amministrazione Comunale della Città Metropolitana che si è detta disponibile ad ampliare le reti sinergiche già attive sul territorio e riformulare nuovi piani d’intervento, a partire della condivisione di buone pratiche. Alle nuove istanze presentate dagli attuali scenari sul Mediterraneo, Reggio è dunque pronta a rispondere con solidarietà e partecipazione attiva, nella logica dello scambio interculturale intrinseco alle trame della sua Storia.
