Alessandro D'Avenia per CityNow.it: "Ogni storia è una storia d'amore"

di Federica Campolo - «Narrare storie è necessa

di Federica Campolo – «Narrare storie è necessario alla sopravvivenza umana tanto quanto l’aver scheggiato la pietra per trarne strumenti ed armi: l’immaginazione ci fa abitare il mondo». Così Alessandro D’Avenia confessa ai suoi lettori la necessità di raccontare e raccontarsi tra le pagine del suo ultimo capolavoro “Ogni storia è una storia d’amore”, un itinerario sentimentale, scandito dalle storie di trentasei donne, che fa capo all’archetipica domanda che nell’arte e nella letteratura ha trovato forma ed espressione: l’amore salva? Quello celebrato dall’autore è un sentimento che si snoda, all’interno della narrazione, attraverso il mito di Orfeo ed Euridice, raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. L’amore infatti genera la più radicale trasformazione dell’esistenza umana. Solamente chi è disposto a vivere questa esperienza, in bilico tra la vita e la morte, può rintracciare nelle buie stanze del dolore una luminosa promessa di salvezza, riconoscendo nella propria fragilità lo strumento attraverso cui tessere la trama della propria storia.

Un inno alla vita che esorta a riscoprire il valore universale della bellezza che strappa la vittoria alla morte: questa la sfida lanciata da Alessandro D’Avenia che, dopo il grande successo di “L’arte di essere Fragili”,  torna a dialogare con i suoi lettori e ad incontrarli, questa volta a Reggio Calabria, presso la libreria Ave.  Ecco l’intervista rilasciata ai microfoni di  CityNow.it.

L’amore salva. Più volte e a più riprese all’interno del suo libro sottolinea che l’amore è un’esperienza di morte che porta con sé la promessa della salvezza. In una società in cui gli individui si sentono “immortali” (per parafrasare il titolo di una canzone di Jovanotti) e la bellezza è una valore relativo, l’uomo avverte la necessità di essere salvato?

La salvezza è qualcosa che accade tutte le mattine quando ci alziamo, tutte le sere quando  andiamo a dormire.  È l’unica cosa che cerchiamo. La nostra felicità è determinata dalla profondità delle relazioni che intratteniamo con il mondo e con gli altri: i nostri rapporti fanno sì che il tessuto della nostra vita, la trama della nostra vita e quindi la nostra storia, abbia consistenza. Il tema della morte è così presente nei miei scritti perché rappresenta lo scacco che viene imposto alla nostra vita, che è invece una grande promessa di compimento. Cos’è che riesce a vincere questo scacco? Qual è l’elemento, che all’interno del tempo, ci svincola dal tempo? In”L’arte di essere fragili” mi sono risposto che l’uomo è un essere dotato di destino;  in questo libro, che è la continuazione del precedente, ho riflettuto sul fatto che questo destino può diventare “destinazione” solo grazie ad una chiamata amorosa. Perché allora è un’esperienza di morte? Attraverso la chiamata amorosa, che comporta la morte del nostro “io” precedente, avvertiamo l’urgenza di entrare in una dimensione più alta, più grande, più duratura. Non è una morte intesa come dolore di cancro ma è un dolore di parto. È l’essere generati e rigenerati proprio attraverso la relazione.

«L’uomo è diverso dagli altri animali perché è capace di destino e destinazione». Cosa significa, per un credente come lei, affermare che l’uomo è “capace di destino”?

Pensiamo ad un bicchiere, ad una bottiglia. Potenzialmente noi siamo chiamati a riempire la nostra vita di un liquido pregiato, di un vino d’annata che si adatterà alla forma, appunto alla “capacità” che abbiamo di ricevere questo liquido che non è destinato a noi, ma deve essere offerto. D’altronde, il buon vino non si beve da soli. È questa l’idea che a me entusiasma e che costituisce il centro, il nucleo, della mia fede.
Per me Dio è adrenalina. Oggi si pensa a un Dio che viene rappresentato con la barba lunga- e la barba viene pure a te nella misura in cui ci pensi!-; in realtà è un Dio che è adrenalina, che ti mette al mondo, appunto, come uno strumento necessario al compimento di questa grande polifonia che è l’esistenza umana. Le qualità e le fragilità che abbiamo sono parte di questo grande progetto; e se anche le debolezze, i fallimenti, le cadute sono parte di questo grande destino allora si annulla anche la paura della vita.
Solo così potrà essere sconfitto quel veleno presente nella cultura di oggi che basa sulla qualità delle prestazioni “top” la pienezza della vita.  Non sempre la vita può essere al “top”: essa tende a cadere,a  fallire, ad essere fragile. E deve essere proprio questa consapevolezza a svincolarci dall’idea che i nostri talenti ci vengano donati per una narcisistica autoaffermazione. Quando entro in classe penso spesso che il motivo per cui faccio l’insegnante di lettere e racconto storie di altri è per rendere un po’ più bella la vita delle persone che ho di fronte. E così con le pagine di un libro. Non me ne porterò nella tomba il numero di copie che ho venduto; quello che davvero devo chiedermi é quanto la mia vita si sia arricchita, mettendo a frutto i miei talenti, e quanto io abbia arricchito quella degli altri.

In un momento storico in cui la cronaca ci consegna con aberrante quotidianità casi di femminicidio, educare alla dimensione dell’amore che salva è una sfida più che mai urgente, affidata in prima istanza alla famiglia e poi alla scuola. Che strumenti ha la scuola per far fronte a questa emergenza?  Come si può insegnare ai giovani che l’amore dona vita e non la toglie?

Questo libro nasce dall’urgenza di porre l’attenzione su un analfabetismo che viene prima di quello cognitivo: l’analfabetismo affettivo. Noi impariamo a vivere i rapporti con gli altri a partire dalle relazioni che abbiamo respirato nel cerchio primario della nostra vita, che è quello familiare; poi viene quello secondario, la scuola. Quindi dalla qualità delle relazioni costruite all’interno della famiglia e della scuola  si configura il modo in cui noi impariamo a gestire le relazioni con gli altri. Oggi è evidente la mancanza di un’educazione affettiva:  nei rapporti si tende a ripetere e replicare modalità consumistiche che sono quelle della cultura dominante. L’altro diventa un oggetto e la relazione si imposta su criteri puramente consumistici: “Fino a che mi servi, ti uso. Se poi ad un certo punto ti opponi a questo mio godimento, sono disposto anche a  distruggerti perché nessun altro ti abbia”.
A scuola, che è l’ambito in cui mi è possibile intervenire come docente, tutte le mattine, al momento dell’appello, mi interrogo su come io sia capace di accogliere quelle vite. Per me l’appello è il momento in cui mi rendo conto di avere davanti un numero di persone che costituisce, ognuna, un pezzo necessario al grande concerto del mondo. Io sono  il direttore d’orchestra. Non sono né padrone della musica, perché lo spartito mi precede, né posso sostituirmi ai ragazzi o usarli per un fine che non sia quello della grande armonia del mondo. Credo che a scuola la grande rivoluzione dipenda da questo: da quanto noi amiamo la fioritura, il compimento delle vite dei ragazzi che ci sono stati affidati.

Dostoevskij, Keats, Pavese sono alcuni dei nomi presenti nel libro. Si tratta di artisti di ogni genere.
A cosa  dovuta la scelta? Sono forse anche loro, un po’come Leopardi, legati ad una fase della sua vita?

Sono tutti autori, artisti, rappresentati del paese della bellezza che ho amato in  questi anni. Quello che mi interessava era andare un po’ dietro le quinte di questa produzione artistica, che fosse letteratura, arte, musica, e capire in che maniera l’intervento di una musa in carne ed ossa fosse stato fondamentale per la loro creatività. Se penso al fatto che, un esempio fra tutti, Modigliani dipinse per la prima volta gli occhi ad una modella solo quando la modella era sua moglie, mi dico che, forse, questi grandi uomini hanno alle spalle grandi donne. Anzi, mi convinco del fatto che loro non furono tanto grandi nella loro capacità di amare. Furono più grandi le donne che ebbero accanto. Ho un concetto di grandezza che è appunto commisurato alla capacità di amare che ha una persona. Agostino diceva:”il mio amore è il mio peso”, una persona pesa quanto ama. Magari questi uomini, dal punto di vista sentimentale, sono stati un po’ leggeri. Erano invece molto forti le donne che li hanno ispirati.

Lei ha scelto di fare tappa qui a Reggio Calabria. La nostra è una terra che ha molto bisogno di essere salvata. Come, secondo lei, l’amore di cui parla può tradursi in interventi a sostegno e tutela del territorio, in operosità concreta a livello sociale?

Come mi ha insegnato uno dei miei maestri, io credo che “ognuno debba fare il suo”.
Io ho avuto la fortuna di avere come professore di religione Padre Pino Puglisi. Ero al quarto anno quando gli hanno sparato. Lui ci ha insegnato che non bisogna fare cose straordinarie ma, nell’ambito in cui ciascuno si muove, è necessario fare quel poco che è alla propria portata. Quel poco che talvolta è costoso. Noi studenti liceali, ad esempio, eravamo chiamati spesso a seguire nello studio i ragazzini di Brancaccio, un quartiere piuttosto difficile di Palermo, oppure semplicemente a farli giocare a calcio. Questo era quello che potevamo mettere a disposizione da par nostro. Lui, da par suo, faceva quello che ha fatto e questo ha comportato poi la sua morte. Quindi credo che ognuno, nell’ambito in cui si muove, debba concepire la propria vita come servizio agli altri. Coloro che, per ragioni professionali, sono più legati alla responsabilità di altri- penso ai politici, penso agli insegnanti- in qualche maniera, davanti allo specchio tutte le mattine, ma poi forse anche dopo, dovranno rendere conto delle vite che sono state loro affidate.

Prima di congedarsi, nell’accennare un sorriso pacato, aggiunge:  «Buona fortuna per le vostre vite. Abbiate cura delle vostre aspirazioni, abbiate cura delle vostre fragilità». Le  storie di bellezza raccontate da D’Avenia offrono ai lettori l’opportunità di sperimentare quel potere di sospensione del tempo che la lettura ha in comune con il vero amore. Ogni racconto, ogni trama, ogni storia intessuta di fragilità è dunque una grande storia d’amore.  Saper narrare, che è privilegio di pochi, arte sublime di cui D’Avenia conosce i segreti più reconditi, svela ai mortali – e questo libro ne è la conferma- la formula per disinnescare la morte e il fluire del tempo: ciò che sai amare rimane.