Cemetery boss, il pentito: «Giordano è il mandante dell'omicidio Gullì»

Filocamo ha raccontato ai magistrati i dettagli appresi in carcere sull'omicidio dell'ex collaboratore di giustizia

«Credo che a Nino Gullì lo abbiano ammazzato perché collaborava».

Antonino Filocamo, il nuovo collaboratore di giustizia i cui verbali sono confluiti nel fascicolo dell’indagine Cemetery Boss sul clan dei Rosmini, chiama in causa uno dei delitti irrisolti più controversi degli ultimi anni, quello dell’ex collaboratore di giustizia Nino Gullì, ammazzato a colpi di pistola nel maggio del 2008.

LE DICHIARAZIONI

«Mi ha detto Nino Barbaro che Franco Giordano è il mandante dell’omicidio di Nino Gullì – ha messo a verbale il giovane collaboratore di giustizia – Durante la detenzione a Catanzaro Nino Barbaro mi ha detto che Franco Giordano è il mandante dell’omicidio di Nino Gullì. Me l’ha detto mentre eravamo all’aria. Nino Barbaro parlava con Edoardo Mangiola, che è uno dei Libri, e poi mi ha riferito cosa si erano detti».

Filocamo si riferisce allo stesso Franco Giordano considerato dagli inquirenti come il mammasantissima della ‘ndrina, che il pentito – uno delle nuove leve dei Serraino, arrestato nel luglio del 2020 con l’operazione Pedigree – riconosce da uno foto durante un interrogatorio con i magistrati della distrettuale antimafia reggina.

«Non conosco i dettagli perché io ero piccolino e non ero ancora accoscato. Credo però che Nino Gullì fosse un Rosmini. All’epoca chi comandava per i Rosmini era Franco Giordano».

All’epoca dei fatti, nel 2008, Filocamo ha solo venti anni e non è ancora entrato nelle fila del clan, ma di quell’omicidio ne ha sentito parlare e racconta agli inquirenti un particolare che finora non era mai emerso. Quel giorno, sul luogo dell’omicidio ci sarebbe stata un’altra persona. Un parente di un altro appartenente al crimine organizzato:

«Un ragazzino – dice ancora Filocamo – assistette all’omicidio e rimase per lungo tempo chiuso in casa».

LA COLLABORAZIONE E LA FUGA

Nino Gullì fu giustiziato a colpi di 7.65 nel maggio del 2008. Davanti ad una sala giochi del rione Modena, fu abbattuto da tre colpi al petto, arrivando al Riuniti già cadavere. Un’esecuzione in piena regola, proprio nel quartiere dove Gullì aveva esercitato il suo ruolo di boss e dove era tornato a vivere una volta uscito dal programma di protezione testimoni, nel 2002. Dopo il suo arresto negli anni ’90 infatti Gullì aveva iniziato a collaborare con i magistrati dell’antimafia reggina. Era stato lo stesso Gullì a ricostruire, durante il processo Olimpia, molti dei fatti di sangue legati alla seconda tremenda guerra di ‘ndrangheta. Ed era stato sempre Gullì che, qualche mese prima, aveva raccontato ai magistrati le circostanze in cui era maturato l’omicidio di Ludovico Ligato, salvo poi ritrattare in seguito ad una clamorosa fuga “doppia” con un altro giovane collaboratore di giustizia, Antonino Rodà. In quell’occasione i due pentiti disertarono l’udienza al processo per l’omicidio dell’ex presidente delle ferrovie, scappando per una settimana dalla località segreta in cui erano stati nascosti. Con loro, scappò anche la moglie di Rodà, che aveva avuto una relazione con entrambi gli uomini. I giudici di quel processo ricevettero una video cassetta con le ritrattazioni che i due collaboratori avevano già messo a verbale sull’esecuzione dell’ex recordman di preferenze democristiano. Dichiarazioni che tiravano in ballo anche Amedeo Matacena, l’ex parlamentare condannato in via definitiva per fatti di mafia e attualmente latitante a Dubai. Poi nel 2002, Gullì esce dal programma di protezione e torna a vivere nel rione Modena. Almeno fino a quando un killer finora rimasto ignoto, lo fredda con tre colpi al petto.