Coronavirus, l'odissea di una giovane calabrese di rientro da Milano

Seguire il protocollo è di fondamentale importanza, ma cosa succede se questo non funziona? Il racconto di una studentessa di ritorno da Milano

“La Task force della Regione Calabria, formata dal Dipartimento Tutela della Salute, Politiche Sanitarie della Regione e dalla Protezione Civile regionale”.

Questa la comunicazione giunta, pochi giorni fa, direttamente dal presidente Jole Santelli. In Calabria però lo scetticismo fa, quasi sempre, da protagonista. E tra chi ha deciso di tornare al sud senza riferirlo alle autorità e chi non crede nell’operato della sanità e delle forze dell’ordine, si rischia veramente di creare il caos. Cosa succede, però a chi, in buona fede, prova a seguire le regole? Ecco il racconto di una giovane studentessa rimpatriata dal Nord che avrebbe voluto seguire le indicazioni fornite dalla regione:

“Io vivo e studio a Milano e questa notte sono rientrata in Calabria. Ci tengo a precisare che non sono rientrata causa Coronavirus, sono tranquilla sotto questo punto di vista perché so gli spostamenti che ho fatto e soprattutto i contatti che ho avuto in questi giorni, ma sono tornata a casa perchè comunque lì non avevo nulla da fare dato che le università sono chiuse e sarei semplicemente dovuta rimanere in casa, cosa che non riesco a fare.

Da onesta cittadina, mi sono recata insieme ad altre due persone che viaggiavano con me dalle 15:00 di domenica 23 febbraio presso l’ospedale Pugliese di Catanzaro seguendo tutto il protocollo quindi non sono scesa dalla macchina, ma ho chiamato diversi numeri: 0961883346 (malattie infettive – ospedale Pugliese) la prima chiamata è stata effettuata da me alle 00:47 senza ottenere alcuna risposta dal momento che il numero risultava occupato. Chiamo allora il medico di turno del reparto malattie infettive al numero 0961883016 e qui nonostante le mie ripetute chiamate non ottengo alcuna risposta.

Decido allora di chiamare il 112 (carabinieri): spiego la situazione e mi dicono che non possono farci nulla, che devo insistere al numero “883346” oppure “prova a chiamare il 1500”, incurante del fatto che il servizio fosse operativo solo dalle 08:00 alle 20:00, cosa che gli ho appunto dovuto dire o ricordare IO. Insisto, ma nulla. Arrivo in pronto soccorso, senza scendere dalla macchina, decido di chiamare il 118 e qui si apre un mondo perché mi risponde una gentile signorina che dopo aver ascoltato “Sto arrivando da Milano con altri due ragazzi” mi dice una serie di cavolate abnormi suggerendomi di tornare a casa tranquilla con una mascherina e poi aggiunge:

“Senti bella, se mi vuoi ascoltare bene altrimenti non so che dirti, ci dovevi pensare prima di scendere.”

Insisto anche qui per fare almeno un controllo, per misurare la temperatura, per fare un tampone, ma ovviamente nulla. Decidiamo di andare a Vibo. Orario della prima chiamata = 01:36. Qui mi risponde il centralino che passa subito la chiamata al collega del pronto soccorso. Dico che stavo tornando da Milano e il signore con molta tranquillità dice:

“Le chiedo di chiamarmi tra 5 minuti perché abbiamo abbastanza pazienti qui”.

Perfetto, ecco che effettuo la seconda chiamata, orario 01:57. Stessa trafila, questa volta sono in macchina, ma fuori il pronto soccorso di Vibo Valentia. Mi dicono testualmente:

“Se voi state scendendo dalla Lombardia il protocollo dice che dovete stare in quarantena per 14 giorni” e qui interrompo dicendo “No, mi scusi, veramente il protocollo dice che bisogna avvisare l’ente sanitario locale in modo da VALUTARE se effettuare misure di quarantena volontaria presso il proprio domicilio” quindi significa che io devo avere contatti con le persone con cui vivo in ogni caso non avrebbe senso, ma va bene. Successivamente, dopo una discussione, chiediamo di misurare almeno la febbre dal momento che eravamo in macchina da tipo 11h e qui il dottore dice “Basta prendere un termometro”.

Insistiamo dicendo di controllarci e il dottore: “Guardate, dovete andare a casa e misurare la febbre, qui non posso fare nulla, se in settimana avete sintomi quali vomito, tosse, problemi respiratori, allora ci chiamate” e a questo punto la risposta più ovvia “Dobbiamo quasi morire praticamente. Va bene la ringraziamo, buon lavoro.”

Dunque, una riflessione mi sorge spontanea: io, ripeto, ho deciso di seguire il protocollo avvisando l’ente sanitario prima di rientrare a casa solo per dare una sicurezza alle persone con cui sarò in contatto in questi giorni perché capisco la paura totalmente giustificata però arrivati a questo punto capisco benissimo tutte le persone che sono rientrate da Milano e dintorni che non hanno avuto lo stesso scrupolo mio, perché personalmente mi sono sentita letteralmente presa a pesci in faccia. Inutile divulgare queste informazioni se poi non siete in grado di prendervi questa “responsabilità” perché mi viene da pensare che in realtà non siete proprio organizzati per la gestione di una tale “influenza”. Io comunque sono rientrata a casa, ho dormito serena, sono super tranquilla e spero possiate esserlo anche voi che state leggendo. Fine dell’Odissea“.

Non sappiamo se questo sia un caso isolato, se nella notte in questione, quella del 24 febbraio, i medici non fossero ancora pronti a far fronte all’emergenza che riguarda tutti noi da vicino, quale sia stato il problema che ha costretto la giovane ad aspettare. In casi come questi, però, è fondamentale sensibilizzare sia cittadini che istituzioni sull’importanza di essere responsabili.