Quando ti togli la mascherina la prima boccata d’aria è violenta

La toccante testimonianza di un medico reggino in trincea nell'area Covid di Milano

Provate a leggere questa lettera. Una lettera dal fronte. Provate a leggere questa lettera di un giovane reggino, medico, da due anni ormai stabilmente a Milano per questioni lavorative. Lui è al fronte. Si capisce, dalla forza delle sue parole. Dall’umanità dei gesti che compie nell’ormai stravolta quotidianità.

Provate a leggere questa lettera senza sentirvi catapultati nella zona rossa.

Lui vuole rimanere anonimo: “Vorrei che fosse l’esperienza di noi operatori sanitari inteso come collettivo”, ci scrive. Pertanto non gli daremo un nome di fantasia. Perché lui è un reggino purosangue. Al fronte. Basta questo.

E noi, siamo orgogliosi di lui, e di tutti i suoi colleghi che affrontano con coraggio, determinazione, e perché no, anche l’umana paura, un mostro che sarà sconfitto. Grazie…

Di solito mentre faccio la strada per andare a far notte in sella alla bici, mi piace assaporare il rumore di vita della città di Milano: luci, bar, ristoranti, cinema affollati. Venerdì scorso andando in ospedale, invece, solo buio e strade deserte. Alienante.

Venerdì scorso alle ore 20 l’ospedale in cui lavoro ha aperto l’ennesimo nuovo reparto Covid. Trenta letti, il pronto soccorso esplode e ricovera un paziente ogni 45 minuti. Tsunami. Non esistono ricoveri impropri, la situazione è grave, gravissima.

La nostra quotidianità lavorativa è stata stravolta, siamo stati rapidamente istruiti sui dispositivi di protezione individuale e ci hanno detto: domani notte iniziate.

Internisti, Ematologi, Geriatri, Chirurghi: diverse specialità, nessuno si è tirato indietro. La forza del gruppo. Tutti si offrono per coprire il turno del collega che si è appena ammalato. La gentilezza di tutto il personale ospedaliero, tutti collaborano per trovare un letto in terapia intensiva/subintensiva quando un malato si complica. Forse lavorare con uno scopo ben preciso in questi momenti di smarrimento rappresenta la marcia in più.

Difficoltà. Le terribili armature dentro le quali siamo imprigionati sono soffocanti, anche la più banale delle azioni diventa complicata, come scrivere sulla tastiera del pc o cambiare un paio di guanti. Guanti, ci hanno detto che devono essere la nostra seconda pelle. Quando lavori dentro il reparto Covid devi sempre essere concentrato al massimo, non sbagliare nulla: basta una piccola distrazione per rompere l’isolamento. Paura di ammalarsi e dover abbandonare i tuoi colleghi che sono già in numero deficitiario. Paura di ammalarsi ed infettare i tuoi cari.

La solitudine dei malati, con all’interno del reparto forzate dinamiche lavorative da lazzaretto. Eppure restiamo umani, è anche questa terapia. Ci avviciniamo ai malati e cerchiamo un contatto con i loro occhi spaventati. Uno sguardo, un cenno di saluto, una battuta per sdrammatizzare fanno la differenza. Ci sono anziani e ci sono giovani, molti giovanissimi. Alcuni ci chiamano per nome, leggendolo scritto in maniera goffa col pennarello sul nostro camice sterile. Ascoltiamo e comprendiamo le loro preoccupazioni: “Dottore ho paura di togliere l’ossigeno”. Empatia. Ci rendiamo conto più che mai della forza esplosiva che può avere un contatto sociale in questo periodo di asocialità, una parola di incoraggiamento in un momento di profondo sconforto: “Come si sente? Stiamo andando bene, mi raccomando non si faccia venire la febbre!”.

I nostri preziosi dispositivi ci regalano l’opportunità e la libertà di infrangere il regolamento, di infrangere regole asettiche. Per cercare di non farli sentire, fosse anche solo per pochi istanti, sporchi, soli e condannati.

Di questa terribile pandemia quello che colpisce è sopratutto il lato umano. Soffocante per noi, inimmaginabile per i tanti pazienti che una volta ricoverati realizzano di rischiare di non rivedere più i propri cari. I pazienti conoscono il Coronavirus, sono al corrente della potenziale gravità della malattia, d’altronde è da mesi che non si parla d’altro.

É vero che perdiamo tanti “nonni pluripatologici”, che comunque tradotto per noi non significa automaticamente condannati a morte. Ci fermiamo a riflettere, è medicina delle catastrofi, cerchiamo di dare una possibilità a tutti ma abbiamo le mani legati dalle limitate risorse di un sistema sanitario collassato.

E questi anziani? Sono tanti, rimangono coscienti fino alla fine mentre il loro organismo silenziosamente li abbandona. Muoiono soli. Immedesimatevi solo per un istante.

Comunicazione. Da domani nel foglio delle consegne ci sarà una novità: una parte dedicata ai rapporti con il mondo esterno, con i parenti che non hanno accesso ai loro cari ricoverati in isolamento. È impensabile gestire certe emozioni dietro un telefono: cercheremo di fare il nostro meglio, con vicinanza e professionalità.

Io. Venerdì scorso la mia prima notte in area Covid, il primo turno di una lunga serie. Pesante psicofisicamente, pian piano mi sto abituando. Cerco di dare il mio meglio. Dopo tante ore, il tuo corpo inizia a chiederti una pausa e quando ti togli la mascherina la prima boccata d’aria è violenta.

Ciò di cui mi stupisco è il non riuscire a staccare mai completamente con la mente da quella maledetta “area rossa”. È controproducente, la guerra è lunga, ma non riesco a gestire certe emozioni. Nel tempo libero studio e mi aggiorno, cosciente che faccio il lavoro che amo e sono davvero fortunato a farlo”.