Nuovi schiavi e vecchi sistemi, così sfruttavano i migranti di Rosarno
Gli imprenditori indagati "pescavano" i lavoratori dalla tendopoli con l'aiuto di alcuni caporali africani
06 Marzo 2021 - 12:51 | di Vincenzo Imperitura
Adana, Turkey - June 8, 2020: Seasonal workers and child workers working in the farm near Adana, Turkey
Operazione “Rasoterra”, il sistema che approfittava dell’estremo bisogno economico dei migranti per lo sfruttamento nel lavoro nei campi.
Il sistema che sfruttava i migranti
Accatastati in condizioni sub umane nello slum dietro il porto, selezionati come manodopera a basso costo agli angoli delle strade o direttamente tra le tende, pagati quanto basta per non morire di fame. Le indagini dell’operazione Rasoterra raccontano storie di sfruttamento e miseria, di sopraffazione e povertà assoluta. Sullo sfondo di quegli agrumeti che hanno rappresentato negli anni uno dei fattori trainanti dell’intera economia della Piana e che ora fanno da fondale a questa storia che sembra ritagliata da una pagina di Steinbeck.
Uomini o Caporali
A distanza di due anni dal suo smantellamento, la baraccopoli della vergogna (sorta e prosperata per un decennio in quello che resta del retroporto) continua a raccontare storie di “imprenditori” agricoli senza scrupoli, migranti pagati 50 centesimi a cassetta, e caporali che si occupano di selezionare e indottrinare i nuovi schiavi prima di mandarli nei campi tra Rizziconi, Gioia e Rosarno. Un’indagine lunga due anni quella portata avanti dalla squadra mobile. Un’indagine che ha certificato, tra le altre cose, il filo diretto che lega i lavoratori stagionali che affollavano la baraccopoli (e che ora vivono nelle tante case abbandonate delle campagne del comprensorio) con le altre terre di raccolta in Puglia e Campania, dove seguendo le stagioni, convergono sia i lavoratori che i loro caporali. Gente in grado di tenere i contatti con gli imprenditori di tutte le aree e gestire gli ingaggi della forza lavoro, riproponendo ovunque le stesse dinamiche. Due di loro sono stati arrestati con l’operazione di ieri. Nella zona sono conosciuti come Rasta e Cafù, vengono da paesi dell’Africa subsahariana, e da anni ormai si occupano del procacciamento dei lavoratori da spedire a raccogliere mandarini. Sono loro, sostengono gli inquirenti della procura di Palmi, il braccio operativo di una serie di imprenditori della zona – sette sono quelli finiti in manette, tra loro anche il pluripregiudicato per fatti di mafia Filippo Raso – che facevano affidamento sul bacino pressoché infinito di disperati presenti nella baraccopoli, per i lavori nei campi.
“Un poderoso sistema di intermediazione illecita – scrive il Gip nell’ordinanza d’arresto – sistema all’interno del quale il singolo lavoratore è mera pedina da poter impiegare nelle varie aziende agricole presenti sul territorio, in spregio a qualsivoglia forma di tutela”.
Spirito umanitario
Sorpreso più volte dai controlli delle forze dell’ordine nei terreni dell’azienda agricola della figlia in compagnia di intere squadre di operai extracomunitari, Raso avrebbe tentato di nascondere lo sfruttamento dei lavoratori ricorrendo ad una serie di escamotage amministrativi costruiti su una legge – quelle delle giornate agricole agli stagionali – che sembra fatta apposta per essere raggirata.
Nella sostanza, Raso – così come anche gli altri imprenditori finiti sotto la lente degli inquirenti – pretendeva che i lavoratori fossero a posto con i documenti, in modo da poter creare dei contratti di facciata che poi venivano puntualmente disattesi. Con tanti saluti a minimi salariali o diritti di sorta, visto che le giornate possono essere validate in un secondo momento e in caso di controlli, il lavoratore ha iniziato proprio quel giorno. Sono gli stessi indagati a spiegarlo ai caporali al momento della chiama: I «marocchini» devono fare quello per cui sono stati chiamati «altrimenti non li pago», devono farlo bene e con ogni condizione meteo («però domani dovete lavorare anche se diluvia»), e devono essere controllati in modo ferreo.
“L’importante è che tutti facciamo il nostro dovere – dice intercettato Raso, con invidiabile faccia tosta, al caporale “Rasta” – le cose per bene, nel giusto”.
Dove “giusto”, in questa logica disorientante, è lo sfruttamento sistematico del lavoratore, meglio se straniero, meglio ancora se disperato. D’altronde, prova a giustificarsi Raso con gli investigatori che lo interrogano sulla presenza dei migranti al lavoro nelle sue terre “li ho fatti lavorare per spirito umanitario”.