Uno sguardo sul sociale, nuovo spazio su CityNow a cura della dott.ssa Falduto

CityNow presenta una nuova rubrica rivolta alle famiglie reggine e non solo. Uno spazio per dare voce alle tante storie di chi vive la disabilità

Nasce la collaborazione di CityNow con la Dott.ssa Maria Laura Falduto, Psicologa e Psicoterapeuta che da più di dieci anni mette le proprie competenze ed esperienze a servizio del sociale e della comunità. La Dott.ssa Falduto è Resp. dei servizi psicologici dei Poli Sanitari di Medicina solidale Ace, è Presidente di Jonas Reggio Calabria Clinica Psicoanalitica per i nuovi sintomi che afferisce al Coordinamento Nazionale di Jonas Italia e più recentemente, svolge attività di coordinamento presso il Centro diurno Psichiatrico “Armonia” di Reggio Calabria, gestito dalla Cooperativa ‘L. Nocera’.

Servizi e realtà importanti per la nostra città, che offrono uno spaccato trasversale di storie, esperienze di impegno, difficoltà e rinascite, di riflessioni e proposte. Storie che ci attraversano e ci riguardano da vicino e che per questo, meritano di essere raccontate. Il format dei contributi che verranno pubblicati con cadenza quindicinale, è stato pensato volutamente senza titolo, sganciato da uno e un solo tema che delimita e circoscrive; l’idea è quella invece di lasciare aperta la porta, di accogliere e ascoltare le storie delle tante realtà che animano il nostro territorio. Saranno proprio le storie a “dare un nome”, di volta in volta, ai contributi che arriveranno alla nostra redazione.

A chi ci rivolgiamo con questo nuovo spazio?

A tutte le belle realtà, alle famiglie e ai singoli cittadini che vogliono condividere la loro esperienza e il proprio attivo contributo al bene della Cosa e Casa comune che è la nostra città.

“Fare qualcosa col buio” – in questi giorni risuona una frase di Basaglia, che assieme ai colleghi di Jonas abbiamo preso in prestito da un progetto di orientamento con le scuole. La figura di Basaglia è sicuramente simbolo di liberazione, rappresenta uno dei capisaldi nella storia della salute mentale: la legge 180 ha squarciato il buio praticando un’inversione di marcia eccezionale, ha “fatto luce” sul binomio normalitàpatologia, sull’importanza dei servizi pubblici, sulla riabilitazione e il reinserimento sociale, ha avviato uno scardinamento di preconcetti e pregiudizi sulla disabilità in genere. A distanza di cinquant’anni il cantiere è ancora aperto, il lavoro prosegue con fatica e non poche difficoltà. Ma quando chiesero a Basaglia se si fosse trovato a gestire un blackout cosa avrebbe fatto, egli risposte:

“Accetterei il buio e organizzerei la situazione. Mi metterei cioè a fare insieme con altri un’attività giusta per il buio”.

La nostra città è ricca di storie, di persone, di associazioni, di movimenti volontari e non, di organizzazioni che tentano di sopperire alle mancanze delle istituzioni mettendosi al loro fianco, con la forza delle proprie esperienze. Racconteremo le storie e faremo luce su quelle realtà che spesso lavorano in ombra, ai margini, si muovono nel buio portandosi addosso il peso del fare da sé, il fantasma dell’abbandono, della solitudine, di un mancato ascolto.

Un’ “attività giusta” sarebbe quindi fare luce e dare voce. Come immagina questo progetto?

Lo immagino come uno spazio aperto di parola. La mia fantasia si spinge sulla possibilità che questo spazio possa prendere le distanze dalla tendenza contemporanea, ossessivo-compulsiva e fallimentare, di trovare nell’ informazione tutte le risposte, che possa arginare per certi versi l’emorragia e la deriva della parola verso forme sempre più aggressive.

Perché dico questo? Oggi il gesto si sostituisce alla parola, ed è un gesto veloce, incapace di attendere, picchietta su una tastiera “che chiede per avere”, usa un linguaggio superbo che pretende, offende, umilia, isola e mortifica la vita. Gli ultimi episodi di violenza tra giovanissimi ci obbligano ad una riflessione profonda: oggi varcano la porta dei nostri studi, giovani e adulti, sempre più informati eppure sempre più angosciati; è il tempo dei reel che dispensano dal reale, delle stories che frammentano le storie singolari e particolari di ognuno, è un tempo animato da un linguaggio ricco di vocaboli sempre più tecnici e specialistici ma per certi versi povero perchè lontano dall’ascolto e dalla gentilezza dei modi; gli eventi di cronaca poi, ci espongono a un’amara considerazione: l’eccesso di informazione non scoraggia la cattiva pratica, pensiamo alle lotte contro la violenza e all’aumento di casi di femminicidio per es. Questo perché la vera consapevolezza nasce, non da un mettere dentro (in-forma) ma dal tirare fuori, dal desiderio di porsi in posizione di domanda e di ascolto verso sé stessi e gli altri. Questo genera movimento e cambiamento.

La parola come antidoto alla violenza. In questo scenario complesso, che ruolo hanno le Istituzioni?

Fare rete è oggi più che mai necessario. Dalla lettura multidisciplinare dei nuovi sintomi del disagio contemporaneo, emerge che “il soggetto è sempre più parlato e sempre meno parlante” per riprendere un’espressione di Recalcati, è parlato dai suoi sintomi: gli agiti violenti, il ritiro sociale, l’autolesionismo nei più giovani, e ancora i disturbi alimentari, le tossicomanie, l’ansia e gli attacchi di panico, la depressione, sono questi i segni e i sintomi di un tessuto sociale oggi più che mai sofferente, strappato, sfilacciato, le cui maglie non sembrano strette in un’unica trama, non appaiono più resistenti e protettive per l’individuo.

Nell’ evidente espressione di queste “reti sintomatiche” bisogna allora ricordare l’importanza che “il corpo sociale” ha per il “corpo individuale”: quando le Istituzioni vengono meno alla loro funzione di riferimento, non fanno rete, vacillano o lanciano dei messaggi ambivalenti, non raccordati tra loro, si brancola nel buio in cerca di puntelli più stabili, ci si sente estranei ed esterni, le radici invece di trasmettere sicurezza e appartenenza sdradicano, o nei casi più estremi si spezzano; questo genera sfiducia, rassegnazione, emigrazione verso un altrove. In questo clima di sfiducia la parola che sorregge il discorso educativo, sociale e politico viene depotenziata, si chiude, si difende, erge muri. Considerare la parola come strumento e motore di cambiamento come responsabilità soggettiva e collettiva di farne un buon uso, significa dare parola a quel corpo sociale che si esprime nello spirito antico della polis, nell’agorà, nel logos.

Un invito quindi a essere parte attiva nei processi di cambiamento, assieme agli altri?

Esattamente.

A non perdere la speranza, a credere e riscoprire il valore della comunità. Significa provare a uscire fuori da quella dimensione solipsista e passiva di lamento, che guarda fuori anziché dentro, che mette fuori di sé una menzogna (là-mento): l’illusione che l’altro copra le mie mancanze. La menzogna del lamento stagna qualsiasi spinta trasformativa; ma se la funzione dell’Altro significativo, Famiglia, Scuola, Politica, Istituzioni ecc. sta nell’ideale di ciò che “dovrebbe darmi”, alla caduta inevitabile di questo ideale si accompagnano frustrazione, rabbia, sconforto che purtroppo oggi si esprimono nelle forme più veementi di aggressività e violenza.

La dimensione della vita comunitaria invece, presuppone un movimento circolare, vede l’altro come risorsa imprescindibile per raggiungere un fine comune a partire dalla accettazione della bellezza delle differenze che è il fulcro di ogni democrazia.

Per segnalare una storia, un disservizio o semplicemente per rivolgere una domanda all’esperta, scrivi a [email protected]