Flotilla, Fullone torna a casa: ‘Deportato e umiliato come fanno con i Palestinesi’ – VIDEO

"Bendati e ammanettati ci hanno portato all'inferno" il racconto della prigionia dell'attivista calabrese

vincenzo fullone gaza

Nel tardo pomeriggio di ieri, l’aeroporto di Lamezia Terme ha accolto con un lungo applauso, il rientro di Vincenzo Fullone, l’attivista calabrese di 53 anni, originario di Mirto Crosia, trattenuto per giorni in Israele dopo l’arresto avvenuto in acque internazionali. Era a bordo della nave Conscience, parte della Freedom Flotilla bis, diretta verso Gaza per consegnare aiuti umanitari.

Ad aspettarlo c’erano i familiari, amici, attivisti calabresi pro Palestina. Hanno portato bandiere, abbracci e lacrime. Un piccolo gruppo, ma carico di emozione e rabbia. Una comunità che si è stretta attorno a chi, con un viaggio di speranza, ha finito per conoscere da vicino la brutalità di un conflitto che dura da decenni.

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Il racconto dell’arresto e della prigionia

L’attivista ha scelto di raccontare, non per denunciare solo il suo dolore, ma per testimoniare quello di un intero popolo, i giorni di prigionia e le proprie emozioni:

“Ho fatto il viaggio al ritroso sul Mediterraneo. Ho visto Gaza dall’alto, irriconoscibile. Ho visto Ashdod, dove hanno provato a piegarmi mettendomi in ginocchio, come fanno da 77 anni con i palestinesi. Sono stato deportato, derubato, umiliato. Mi hanno tolto tutto, anche le immagini che guardavo la sera in barca per trovare forza. Questo fanno ai palestinesi da 77 anni”.

Fullone descrive il sistema della detenzione israeliana come una “macchina mostruosa”.

“Siamo stati portati nel Negev, nel deserto occupato della Palestina, dove i palestinesi entrano e spesso non escono più, o se lo fanno, lo fanno da cadaveri, senza organi e strati di pelle. Ho sentito le urla dei palestinesi nel lager in cui ero, ho sentito l’odore della loro paura, della loro urina nei vagoni di metallo dove ci hanno chiusi. Io non me la sono fatta sotto solo perché avevo un passaporto rosso. Per loro è così ogni giorno”.

La voce viene meno nel raccontare gli orrori vissuti, ma non smette di parlare.

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“Mi chiamo Palestina libera”

Le sue parole diventano un grido che va oltre la testimonianza personale:

“Bendati, ammanettati polsi e caviglie, ci hanno portato all’inferno. Io non mi chiamo più Vincenzo Fullone. Mi chiamo Shirin Abouakir, Hassan Rousti, mi chiamo Osama Boussafia, che ancora è nelle prigioni del Negev. Mi chiamo sopravvissuto, con la speranza che la Palestina sarà libera presto. Palestina libera!”.

La voce si spezza, ma l’eco resta.

Il significato di un ritorno

Il ritorno di Vincenzo Fullone non è solo la fine di una detenzione, ma l’inizio di una testimonianza. È il volto umano di una missione che non è riuscita a consegnare aiuti, ma ha consegnato al mondo un messaggio potente: non si può restare indifferenti.

Oggi Fullone è tornato a casa, ma porta con sé il peso di chi ha visto ciò che non si dovrebbe vedere mai. Gaza, dice, “l’ho vista dall’alto, e non la riconoscevo più”.

Il suo viaggio, partito per portare speranza, diventa ora un racconto di denuncia, di resistenza e di memoria.