Quando l’architettura diventa moda


di Maria Assunta Forzano – 

Architettura e moda, pura espressione di  idee di identità personale, sociale e culturale.

Ambedue riflettono gli interessi degli utenti, l’ambizione dell’età ed intercettano il cambiamento delle città mostrandolo: l’una “abitando corpi”, l’altra vestendo i luoghi.

Dagli anni 90 sono avvenuti cambiamenti significativi nelle strategie di business della moda: le prestigiose maison sono state acquistate dai grandi gruppi e i flagship stores diventano sostanziali nelle strategie di marketing.

In questo scenario, l’architetto è chiamato a svolgere un ruolo chiave: deve tradurre in forma i valori sottesi dal marchio.

Tra l’altro molti noti stilisti hanno, prima di intraprendere tale carriera, preso una laurea in architettura, da Gianfranco Ferré a Sergio Rossi, Diego Dolcini e Michel Perry tutti e tre  guru della calzatura.

O come Mihai Albu, che dopo i tradizionali studi di architettura e design, apre la sua casa di moda e si definisce “architetto della calzatura” realizzando “impalcature” a forma di tacco e plateau.

 Oltrepassando le scarpe, possiamo comunque allargare il discorso alla moda più in generale.

Le analogie tra architetto e stilista sono palesi nel processo di ideazione: schizzo disegno, modello, scelta materiali, avvio della produzione/realizzazione o in maniera più elastica nella differenziazione delle tipologie: case popolari, condomini e villette a schiera, ville lussuosi o castelli e dall’altro lato: abbigliamento a bassissimo costo, negozi commerciali, prêt-à-porter, haute couture.

Lo stile di un architetto è espressione della sua personalità e delle sue esperienze di vita o della parte del mondo da cui proviene esattamente quanto la collezione di uno stilista.

Ma alla fine chi influenza chi?

E’ ormai risaputo che  le diverse maison di moda ormai fanno a gara per farsi disegnare nelle varie metropoli del lusso i loro headquarters da architetti stra-famosi.

È stato il giro di boa successivo alla cessione di molte case di moda a multinazionali internazionali. Si tratta di una vera opera di marketing anche questa, che conferisce all’architettura il ruolo dibrand promotion, di icona che esprima tramite l’edificio lo spirito della casa di moda e che resti fissata nell’immaginario collettivo.

Alcuni esempi significativi di associazioni maison/architetto: Giorgio Armani e i coniugi Fuksas per gli store di Hong Kong, Tokyo, Shangai e la Ginza Tower; Toyo Ito per Tod’s, Renzo Piano per la maison Hermès, Kazuyo Sejima per Dior, tutti a Tokyo, o Kengo Kuma per Louis Vuitton questa volta a Osaka ed infine in Italia la Piùarch, non a caso Best Italian Architecture Firm del 2013, firma l’headquarters di Dolce e Gabbana a Milano.

La moda è architettura quando dà una struttura ai gusti e alle tendenze, e come abile architetto, dà loro forma, visibilità. L’architettura è moda perché vetrina del tempo che passa, delle “mode” che investono spazi e persone.
Quale modo migliore per capire gli anni Sessanta se non quello di osservare gli abiti e i palazzi del tempo? La tensione al cambiamento è presente ugualmente sia nelle minigonne sia nelle facciate di palazzi che sembrano oggetti di design. Gli occhiali da sole “spaziali” e i finestroni colorati esprimono la stessa tendenza radicale.
Nel 2006 una mostra al Centre for Architecture di New York dal titolo “The Fashion of Architecture” mise in evidenza come l’architettura utilizzasse da sempre tecniche rubate alla sartoria (il drappeggio o la stiratura), e così la moda alla statica o alla scienza delle costruzioni. L’esposizione illustrava come la forma spirale andasse bene per disegnare una gonna e una scala e che gli edifici potessero essere gonfiabili come reggiseni.

La parola d’ordine?

La moda è architettura. L’architettura è moda.