Le birre, i pedinamenti e la cava dei misteri. Così i carabinieri hanno scoperto i latitanti dei Pesce

Cerchi i latitanti e trovi (anche) la droga e le armi

Cerchi i latitanti e trovi (anche) la droga e le armi: nell’ordinanza del Gip di Reggio Calabria Stefania Rachele che ha sancito l’arresto di 19 presunti fiancheggiatori del clan dei Pesce (per 5 di essi, il tribunale ha fissato gli arresti domiciliari) c’è tutto il campionario degli orrori tipici dei clan del reggino. Dal latitante di lungo corso che si nasconde a due passi da casa sua grazie ad una rete fittissima di agganci e aiuti, al traffico di droga venuto fuori mentre i carabinieri di Reggio e di Gioia Tauro davano la caccia ai “fuiuti”, fino alla presenza delle armi, dai revolver agli ak47, di cui gli indagati potevano disporre.

I LATITANTI

Sono quattro i latitanti (uno di loro, Vincenzo De Marte, considerato pezzo grosso della famiglia Pesce e inserito nell’elenco dei latitanti pericolosi del Viminale) che la rete tesa dalla distrettuale antimafia dello Stretto e dai carabinieri è riuscita ad intercettare studiando i mille trucchi messi in piedi dal gruppo e pedinando parenti, mogli, amanti e sodali dei ricercati. Un’indagine che ha mischiato l’utilizzo di nuove tecnologie al fiuto degli investigatori, capaci di fare scattare la trappola anche grazie ad un indizio banale come una manciata di pizze e un paio di bottiglie di birra da portare via. Sarà infatti una (apparentemente) banale visita in pizzeria che convincerà gli inquirenti che il momento buono era arrivato. I carabinieri, si legge nelle carte, da giorni tenevano sotto controllo i movimenti della compagna di Antonino Pesce, Valentina Conteduca  – per lei il tribunale ha disposto gli arresti domiciliari – che attraverso un complicato giro che comprendeva cambi di auto, soste improvvise tra Rosarno e Gioia e tentativi di «spedinamento» lungo trazzere di campagna, riusciva grazie alla complicità di parenti e amici, a incontrare il padre dei suoi due figli, Antonino Pesce, uccel di bosco da quasi tre anni. Seguendo la donna, gli investigatori arrivano al cugino di Pesce e infine a Tonino Belcastro considerato come trait d’union tra il fuggitivo e i suoi affari. Tonino Belcastro, vive da solo; sua figlia vive al nord e con la moglie è finita da un pezzo. Ma quella sera, dopo avere fatto una serie di giri più che sospetti prima di tornare alla cava, l’indagato, sempre seguito da vicino dagli inquirenti, si ferma in una pizzeria di Gioia Tauro da dove esce con tre pizze e una «una busta di plastica bianca all’interno della quale si distinguevano le forme tipiche delle bottiglie di birra». Nel covo intanto, gli investigatori segnalano la presenza di un paio di persone. Gli indizi ci sono tutti e i carabinieri decidono di muoversi convergendo, a notte inoltrata, verso quella casa ai margini della casa dove troveranno Pesce assieme alla compagna e al factotum, oltre ai resti di una pizzata risultata decisamente indigesta.

LA CAVA

Al centro di questo intricato groviglio di collusioni e aiuti (il gruppo, secondo le accuse, aveva messo a disposizione dei latitanti una serie di appartamenti, oltre al continuo rifornimento di cibo e svaghi e al “traghettamento” di diversi individui che incontravano i latitanti stessi) c’era una cava di sabbia, a due passi dal centro di Gioia Tauro che, scrivono i giudici «rappresenta l’epicentro di una serie di attività delittuose gravitanti principalmente intorno alle figure dei cugini Antonino, Alessandro e Girolomo Bruzzese». È qui che gli investigatori trovano De Marte ed è qui che il gruppo stipava i carichi di droga – marijuana, cocaina, eroina e hashish – da smerciare in Italia; ed è sempre nella cava che il gruppo custodiva le armi. Da qui poi partiva il sostegno ai membri del clan che erano riusciti a sfuggire ai blitz delle forze dell’ordine. Come Salvatore Etzi e Salvatore Palumbo che gli stessi fratelli Bruzzese avrebbero nascosto in un appartamento a Taureana, sulla spianata che domina il mare di Palmi. Una innocua cava di sabbia che era diventata – anche grazie alla possibilità di nascondere i fuggitivi all’interno dei mezzi di cantiere al momento di lasciare il rifugio – la casa di un gruppo pericoloso, organizzato e sospettoso e che, tra un carico di eroina e un summit tra sodali, si era trasformata in un covo che sembra venuto fuori da un libro di Raymond Chandler.