Caso Riace, la Procura: 'Condannate Lucano a 7 anni e 11 mesi'

"Lucano infrangeva le leggi, ed era consapevole di farlo", da qui la severissima richiesta di pena

Sette anni e undici mesi: tanto peserebbero le colpe che la Procura di Locri addebita a Mimmo Lucano nella gestione dei vari progetti d’accoglienza di Riace. Una pena severissima (in totale saranno poco meno di 70 gli anni di reclusione richiesti dai magistrati nei confronti dei 27 imputati del processo Xenia, numerose le richieste di assoluzione) arrivata alla fine di una requisitoria lunga e dai toni drammatici.

«Questo non è un processo alla nobile attività dell’accoglienza» hanno ribadito più volte i magistrati durante la requisitoria, nel tentativo di rinculare le forti pressioni mediatiche che hanno accompagnato tutte le fasi del procedimento.

E così, dopo due anni di indagine, una trentina di udienze, numerose sentenze di Riesame e Cassazione che ne hanno ridimensionato buona parte delle accuse, il processo al “modello Riace” arriva allo sprint finale, con la Procura di Locri che tira le somme di un’inchiesta che parla di fatture false e rendicondazioni farlocche e che però, di fatto, cancella dall’equazione finale, la variabile migranti.

Nella sostanza, nell’ipotesi dell’accusa, tutto quello che ha fatto di un minuscolo paese dello Jonio reggino, un modello di integrazione studiato a livello globale, sarebbe figlio della bramosia di potere dell’uomo che ne è l’artefice. E più precisamente «della paura di Lucano di perdere il potere.

È Domenico Lucano – attacca duro Permunian – il vero Dominus di tutto un sistema creato per puro tornaconto politico elettorale». Una requisitoria dai toni soffusi ma dagli affondi feroci nella quale la Procura locrese prova a demolire, pezzo per pezzo, gli ultimi anni di gestione del paese dell’accoglienza. E per farlo tira in mezzo anche una manciata di funzionari della Prefettura «che hanno trasgredito alle direttive del loro superiore, scrivendo una relazione (quella che decantava le lodi di un’accoglienza alternativa ai modelli di sfruttamento e caporalato molto diffusi in Calabria, ndr) che non si occupava degli aspetti amministrativi ma di quelli sociali».

E poi i laboratori di artigianato presenti in paese «ma che erano tenuti aperti solo in occasione di visite importanti», e la «scarsa professionalità delle maestranze assunte nelle cooperative di gestione» in un vortice di accuse che rimbalzano inevitabilmente sul piano politico «perché Lucano infrangeva le leggi, ed era consapevole di farlo».