Epicentro, le motivazioni della sentenza: la ‘ndrangheta su Reggio in un ‘sistema parallelo allo Stato’

Il Giudice istruttore: "Una macchina perfetta di controllo e intimidazione". I NOMI degli imputati tra affiliati, organizzatori e posizioni minori

Tribunale Corte Appello Reggio Calabria (2)

Nel cuore di Reggio Calabria, la ‘ndrangheta non era solo un’ombra, ma un’entità viva e onnipresente, capace di decidere il destino di imprenditori, commercianti e persino rappresentanti delle istituzioni. Con la sentenza pronunciata nell’ambito dell’inchiesta Epicentro, la magistratura ha messo nero su bianco un sistema mafioso sofisticato, capace di muovere milioni di euro e di influenzare la politica locale con pressioni e strategie di potere.

Le motivazioni della sentenza depositate dalla Corte d’Appello non sono solo un documento tecnico, ma una radiografia del dominio criminale esercitato per anni da alcune delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta. Attraverso intercettazioni, testimonianze di pentiti e operazioni investigative senza precedenti, i magistrati hanno portato alla luce una struttura organizzativa capace di esercitare il controllo su appalti, attività commerciali e persino sulla vita sociale della città.

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Il giudice istruttore: “Una macchina perfetta di controllo e intimidazione”

Nelle motivazioni della sentenza, il giudice istruttore ha espresso parole dure sulla struttura della ‘ndrangheta reggina, sottolineando come non si tratti di un’organizzazione improvvisata o di un’accozzaglia di delinquenti comuni, ma di una vera e propria “macchina perfetta di controllo e intimidazione”.

“La ‘ndrangheta ha saputo evolversi e strutturarsi come un sistema parallelo allo Stato – si legge nel documento – garantendosi una posizione di forza non solo attraverso la violenza, ma con una gestione scientifica del potere, fatta di accordi, ricatti e infiltrazioni”.

Secondo il giudice, il maxi processo Epicentro ha dimostrato come la criminalità organizzata sia stata in grado di monopolizzare interi settori economici, imponendo un clima di paura che ha reso difficile ogni forma di ribellione.

“L’imposizione del pizzo, la spartizione degli appalti e il controllo delle elezioni locali – continua il giudice – sono solo alcuni degli strumenti attraverso cui la ‘ndrangheta ha esercitato il proprio dominio. Un sistema talmente radicato che molti cittadini hanno preferito il silenzio alla denuncia”.

La sentenza evidenzia inoltre come l’organizzazione abbia utilizzato sofisticati metodi di comunicazione per eludere le indagini e garantire la continuità delle proprie attività.

“Non stiamo parlando di semplici criminali – ha concluso il giudice – ma di soggetti che hanno saputo coniugare l’uso della violenza con un’intelligenza strategica fuori dal comune, mantenendo il controllo del territorio con una precisione quasi chirurgica”.

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Ricorsi in Cassazione e prospettive future

Dopo la sentenza della Corte d’Appello, molti imputati hanno deciso di presentare ricorso in Cassazione per contestare le condanne ricevute. Le difese hanno sollevato diverse questioni, cercando di ottenere l’annullamento. Le strategie adottate dagli avvocati si basano principalmente su tre linee di attacco:

1. Contestazione della validità delle intercettazioni

Alcuni legali sostengono che le intercettazioni telefoniche e ambientali utilizzate nel processo siano state acquisite in modo non conforme alla normativa vigente. In particolare, viene contestato il mancato rispetto delle garanzie previste dall’art. 267 c.p.p., che disciplina le autorizzazioni per l’uso di tali mezzi di prova.

Gli avvocati di Antonio Libri e Carmine De Stefano hanno chiesto alla Cassazione di escludere alcune registrazioni ambientali, ritenute fondamentali per l’accusa, sostenendo che siano state interpretate in modo arbitrario o che siano frutto di forzature investigative.

2. Inattendibilità dei collaboratori di giustizia

Un altro punto centrale della difesa riguarda le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, su cui si basa una parte significativa del quadro accusatorio. I difensori di Giorgio De Stefano e Luigi Molinetti hanno presentato ricorsi evidenziando presunte contraddizioni nelle deposizioni di alcuni pentiti, chiedendo alla Suprema Corte di rivedere l’attendibilità delle testimonianze.

In particolare, la difesa di Edoardo Mangiola ha sottolineato che i collaboratori avrebbero fornito versioni discordanti sui suoi presunti rapporti con la cosca Libri, mentre gli avvocati di Cosimo Bevilacqua hanno presentato documenti che dimostrerebbero la sua estraneità ad alcune delle accuse mosse nei suoi confronti.

3. Richiesta di riqualificazione dei reati e riduzione delle pene

Alcuni imputati hanno chiesto una diversa qualificazione giuridica dei reati contestati. Ad esempio, per Salvatore Giuseppe Molinetti e Antonino Randisi, i difensori hanno sostenuto che le loro condotte non rientrerebbero nell’associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p., ma dovrebbero essere ricondotte a reati minori come favoreggiamento personale o ricettazione.

Per Andrea Giungo e Domenico Morabito, condannati per il reato di estorsione aggravata dal metodo mafioso, la difesa ha chiesto una riduzione della pena, argomentando che non vi sarebbe stata una diretta minaccia o intimidazione nei confronti delle vittime.

Anche Maurizio Pasquale De Carlo e Salvatore Laganà, accusati di aver gestito imprese riconducibili alla ‘ndrangheta, hanno presentato ricorso sostenendo che il loro coinvolgimento fosse marginale e che le condanne fossero eccessivamente severe rispetto ai ruoli ricoperti.

4. Questioni procedurali e richiesta di annullamento della sentenza

Alcuni difensori hanno sollevato questioni di natura procedurale, chiedendo l’annullamento della sentenza per vizi di forma. Tra questi, gli avvocati di Domenico Bruno e Francesco Fracapane hanno sottolineato presunti errori nelle notifiche degli atti e irregolarità nelle fasi preliminari del processo.

Inoltre, alcuni imputati hanno chiesto la revisione delle misure cautelari ancora in atto, contestando il mantenimento della detenzione preventiva in assenza di elementi concreti che giustifichino il pericolo di reiterazione del reato.

Cosa succederà ora?

La Corte di Cassazione sarà chiamata a esprimersi sui ricorsi nei prossimi mesi. Se alcuni motivi di impugnazione venissero accolti, gli imputati potrebbero ottenere uno sconto di pena o, in alcuni casi, un nuovo processo in Corte d’Appello. Tuttavia, le motivazioni della sentenza di secondo grado hanno confermato un quadro accusatorio solido, basato su molteplici elementi di prova, rendendo difficile un annullamento radicale delle condanne.

La decisione della Cassazione avrà un impatto significativo non solo per gli imputati, ma anche per l’intera strategia di contrasto alla criminalità organizzata a Reggio Calabria. Un eventuale accoglimento dei ricorsi potrebbe creare un precedente per altri processi di mafia.

Gli imputati e le condanne

Il procedimento giudiziario ha visto coinvolti oltre 50 imputati, alcuni dei quali già detenuti per altre cause. Le motivazioni della sentenza forniscono un quadro dettagliato delle responsabilità di ciascun soggetto e delle pene inflitte.

1. I capi e gli organizzatori

Tra le figure apicali della ‘ndrangheta reggina individuate dalla sentenza figurano:

  • Antonio Libri, ritenuto dirigente della cosca Libri, responsabile della gestione degli affari criminali e della raccolta estorsiva. Condannato a 25 anni di reclusione.
  • Edoardo Mangiola, suo stretto collaboratore, con compiti operativi nella gestione del racket. Condannato a 22 anni.
  • Carmine De Stefano, leader della cosca De Stefano, ritenuto il regista delle infiltrazioni negli appalti pubblici. Condannato a 30 anni.
  • Giorgio De Stefano, portavoce della cosca, attivo nella gestione delle risorse economiche anche fuori dalla Calabria. Condannato a 28 anni.
  • Luigi Molinetti, storico esponente della ‘ndrangheta di Archi, coinvolto nella gestione degli affari illeciti. Condannato a 27 anni.
  • Orazio Maria Carmelo De Stefano, con un ruolo apicale nella cosca di Archi. Condannato a 25 anni.

2. I partecipi e gli affiliati

Molti altri imputati sono stati riconosciuti colpevoli di aver partecipato attivamente all’organizzazione criminale, contribuendo alla raccolta delle estorsioni, alla gestione delle attività economiche e alla protezione dei detenuti:

  • Domenico Bruno, ritenuto un esattore del racket, condannato a 18 anni.
  • Cosimo Bevilacqua, detto il “Pappagallo”, referente della cosca presso la comunità ROM di Arghillà. Condannato a 16 anni.
  • Andrea Giungo e Domenico Morabito, collaboratori nella riscossione dei proventi criminali. Condannati a 15 anni ciascuno.
  • Salvatore Giuseppe Molinetti, intermediario tra il padre Alfonso e la cosca, condannato a 14 anni.
  • Antonino Randisi, collaboratore di Giorgio De Stefano, coinvolto nel traffico di armi. Condannato a 14 anni.

3. Le posizioni minori e gli sconti di pena

Alcuni imputati hanno ottenuto sconti di pena grazie alla collaborazione con la giustizia o per il riconoscimento di attenuanti:

  • Maurizio Pasquale De Carlo, imprenditore colluso con la cosca, ha ricevuto 10 anni.
  • Salvatore Laganà, gestore di imprese riconducibili alla ‘ndrangheta, condannato a 8 anni.
  • Francesco Fracapane, affiliato di livello inferiore, condannato a 7 anni.

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