Coronavirus, il racconto degli studenti a CityNow. Domenico: 'Tributo alla vecchiezza'

"Quella degli anziani decimati è una tragedia che lascerà dei segni profondi nella società". Il racconto di Domenico

“Rammento quando ero bambino, la convivialità della domenica.

Ci ritrovavamo tutti a casa del nonno, preparando un pranzo luculliano, stringendoci attorno a un’unica tavolata, imbandita a festa, per le grandi occasioni. C’era sempre un momento, dopo il secondo, in cui la mia innocenza da bambino prendeva il sopravvento: mi mettevo sulla sedia, tenuto saldamente da mio padre, di fronte a mio nonno e prendevo un libro qualsiasi dello scaffale, liso dal tempo, emanante il profumo della carta, rintoccante lo strepitio delle pagine, conferente al tatto la ruvidezza dell’inchiostro impresso.

Un libro qualsiasi, e iniziavo a declamare, parole confuse, architetture fondanti sulla mia assurda fantasticheria, sibili intervallati da urla prorompenti. Disquisivo di un pensiero nichilista che allora non avrei mai potuto comprendere, nel mio inconscio da bambino, ma che già tendeva al pessimismo che mi caratterizza. Mio nonno era lì, di fronte a me, mi scrutava con occhi vividi, con sorriso rassicurante, con una forza interiore invidiabile nel dissimulare il dolore della malattia. Mi scrutava, ero lì, a delirare nel mio soliloquio, che durava sempre una decina di minuti, a cui seguiva un appagante e scrosciante applauso.

Mi ricordo quando il pomeriggio dopo pranzo, peluche del lupo in mano, mi chiudevo nella sua camera per parlare. Non volevo entrasse nessuno per non minare quell’intimità, quella complicità, quel candore degli sguardi, profondi, intensi. Parlavo, parlavo e parlavo e lui che mi stava a ascoltare, parafrasando Il frate di Francesco Guccini, ero un fiume in piena, ma lui ne era entusiasta.

La stanchezza non si faceva sentire, né per me né per lui, che dava adito alla formulazione dei miei discorsi inconcepibili; passavo ore nella stanza col nonno, ammirato dalla sua saggezza, dal suo volto plasmato dalle rughe dell’esperienza, dalla testa canuta, da quegli occhi cristallini. Quelle domeniche terminavano col consueto cerimoniale della carezza, del bacio e di un’ultima parola, che andava a chiudere nella ciclicità della giornata, quegli attimi condivisi: ciao caro.

Sono trascorsi tredici anni da quelle domeniche stroncate, dalla crudezza e dal cinismo di un destino iniquo e infausto, ma lo abbiamo accompagnato fino all’ultimo, restituendogli quella carezza che dispensava a tutti in famiglia.

Oggi, nell’apocalittico scenario dell’epidemia, della bestia immonda del Covid 19, quella carezza non può essere resa ai morenti, agli anziani ricoverati in terapia intensiva, a coloro i quali cercano in tutti i modi di sfuggire all’appuntamento con la morte, dando sfoggio per l’ultima volta delle loro qualità da abili scacchieri per inverare la mossa decisiva.

La morte va affrontata, infatti, come nel film L’ultimo sigillo, giocandoci a scacchi, ragionando di logica, sorprendendola, depauperandola della sua peculiarità, della sua cifra significativa, consistente appunto nell’imprevedibilità, nell’ineluttabilità. Sai che devi morire, è assodato, ma l’appuntamento con essa non è mai rispondente a un quando preciso e irrefutabile.

E l’ora quanto mai imprecisata è scoccata soprattutto per delle categorie sociali fragili quali gli anziani, anziani ospiti delle case di riposo, anziani soli senza nessuno su cui porre affidamento. È un dramma nel dramma quello degli anziani nelle Rsa nazionali, fonte di contagio importante per gli operatori sanitari e gli ospiti stessi.

Le strutture riabilitative o di assistenza sono divenute luogo di un’ecatombe silenziosa, spesso taciuta o troppo tardi rivelata.

Da Nord a Sud, dalla Lombardia alla Campania fino alla Calabria, le residenze hanno registrato migliaia di contagiati e purtroppo conseguenti decessi.

Dalla Bergamasca a Chiaravalle, in provincia di Catanzaro, dove si contano numerosi decessi fino alla recente inchiesta giornalistica del quotidiano La Repubblica sulla situazione insostenibile vigente nello storico polo geriatrico meneghino del Pio Albergo Trivulzio, il più grande d’Italia, inaugurato nel 1771 da un nobile amico di Pietro Verri e Cesare Beccaria, esponente dell’Accademia dei Pugni, dove si presume che siano morti in più di cento tra marzo e aprile sui 1300 degenti. La Procura di Milano ha, in proposito, aperto un fascicolo, per accertare eventuali responsabilità e il Ministero ha inviato degli ispettori per constatare lo stato reale del contagio.

Si dà il caso che le case di riposo siano isolate, in quanto tutti gli operatori e gli ospiti a rischio diffusione del virus, determinando l’impossibilità da parte dei congiunti di assisterli e accudirli. La condizione psicologica che ne consegue è di devastazione, scoramento, timore costante. Gli anziani partecipano alla morte altrui, osservano lo scacchista rimuginare sulla pedina da muovere, patiscono impotenti, inermi la sofferenza dei loro vicini, dei loro amici.

E al contempo, là fuori, figli, nipoti, vivono col terrore che il contagio possa coinvolgere anche i loro parenti.

Si instaura un labile e sottile confine tra gli ingressi delle case di riposo e il mondo circostante, un confine invalicabile, una reclusione coercitiva che è un’implicita affermazione dell’alienazione, psicologica e affettiva, di coloro che ci stanno dentro.

E’ un dramma incommensurabile quello degli anziani decimati, è una tragedia che lascerà dei segni profondi nella società del presente, ma eminentemente nella società del domani. Stiamo perdendo il nostro patrimonio, quanto di più prezioso custodiamo, stiamo perdendo in fondo la nostra proiezione nel dopo, nel futuro.

Quella testa canuta, quegli occhi vividi, quella forza interiore, sta svanendo, nella caducità e nella regressione della malattia, nel cinismo che oggi paghiamo caro di coloro che pensavano stoltamente, che dei “vecchi” se ne potesse fare anche a meno. Che i vecchi non dovessero più esercitare il diritto di voto, poiché il futuro è altamente tecnologizzato, innovativo, che rappresentassero un aggravio per l’economia; che tanto i vecchi chi sono, largo agli aitanti giovani.

Muoiono gli anziani, tanto muoiono solo gli anziani, noi viviamo, facciamo jogging, trasgrediamo le norme. Noi siamo giovani, voi vecchi, noi pianificatori del futuro, voi nostalgici del passato.

Ma sappiate che è il passato che stiamo perdendo, dei testimoni del tempo che lo stesso non ci restituirà. Fate pertanto una carezza ai vostri nonni, ricambiate quella che vi hanno dato, perché la vecchiezza è cosa rara, è cosa amena.

La vecchiezza siamo, intrinsecamente, noi stessi”.

Domenico Buccafurri, 4A, Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci