Malefix, dalle risse della vita mondana alla maturità criminale: l’ascesa di Giorgino De Stefano

Ecco il profilo tracciato dagli inquirenti del fratellastro di Carmine, Giuseppe e Dimitri. La spola tra Reggio e Milano e i tentativi di ricomporre le fratture

L’operazione “Malefix”, a conclusione di complesse e articolate indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Reggio Calabria diretta dal Procuratore Giovanni Bombardieri, la Squadra Mobile reggina e il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, certifica ancora una volta l’esistenza ed operatività delle cosche di ‘ndrangheta De Stefano, Tegano e Libri, attive in prevalenza nel quartiere “Archi” della città di Reggio Calabria e nelle aree limitrofe.

Il fulcro principale del procedimento è rappresentato dalle innumerevoli intercettazioni che hanno permesso di ricostruire, sia pure solo in parte, l’organigramma attuale dei due sodalizi di ‘ndrangheta, la ripartizione dei ruoli all’interno degli stessi, le gerarchie, il tipo di reali programmati o commessi, le peculiari modalità di risoluzione di controversie interne tra sodali e le connesse sanzioni, nonché gli accordi spartitori e le sinergie operative tra le due cosche da tempo federate. Dialoghi e intercettazioni che servono anche a dare agli investigatori un profilo fedele dei singoli soggetti destinatari delle misure cautelari firmate dal Gip Tommasina Cotroneo.

Giorgio De Stefano nel corso degli anni si è guadagnato una posizione di rilievo all’interno dell’organigramma del locale di Archi, ed è finito nella rete degli inquirenti – si legge nell’ordinanza – in qualità di dirigente ed organizzatore dell’articolazione della ndrangheta riferibile al territorio di Archi, che aveva riunificato, intorno alla cosca De Stefano, più gruppi storicamente ivi operanti. Traeva fama criminale e capacità intimidatoria ed assoggettante dall’omonima cosca e dal ruolo verticistico svolto in questa dapprima dal padre Paolo, quindi dai fratelli Giuseppe e Carmine.

È quindi descritto come il principale collaboratore e “portavoce” di Carmine De Stefano, curava gli interessi economico/imprenditoriali del sodalizio anche in Lombardia e all’estero; provvedeva al mantenimento in carcere ed al pagamento delle spese legali per gli associati detenuti; dava assistenza agli associati latitanti; faceva da mediatore per la risoluzione dei contrasti interni alla cosca; curava la riscossione dei proventi estorsivi ed assicurava protezione ai commercianti ed imprenditori contigui alla cosca o costretti al pagamento del “pizzo”; manteneva i rapporti con i rappresentanti delle altre cosche di ndrangheta, con cui condivideva l’aggressione patrimoniale delle attività economiche presenti nel centro cittadino.

Giorgino l’appariscente

Le indagini su Giorgio De Stefano, detto Giorgino, consegnano la figura di uno ‘ndranghetista di “nuova generazione”, che nel tempo è maturato e che è in grado di pianificare le più moderne strategie operative della cosca delocalizzando gli interessi economici della stessa. Fa la spola tra Milano e Reggio Calabria “ove si reca nottetempo ed alla chetichella noleggiando autovetture o utilizzando il treno e non portando con sé il telefono all’evidente fine di non lasciare traccia di quei viaggi nel corso dei quali partecipa a veri e propri summit con il fratello Carmine De Stefano delle cui direttive fa tesoro”.

Giorgio De Stefano è, peraltro, perfettamente consapevole di non poter prescindere dall’autorevolezza e dalla capacità evocativa del proprio altisonante cognome nel territorio reggino: è il figlio della relazione extraconiugale del patriarca della cosca, Paolo Rosario, e quindi fratellastro di Carmine, Giuseppe e Dimitri.

La sua parabola è lunga e non sempre limpida rispetto ai comportamenti di cui si rende protagonista in pubblico. A rendere conto del “primo” Giorgio De Stefano sono soprattutto i collaboratori di giustizia Enrico De Rosa e Giuseppe Liuzzo.

Il primo – si legge ancora nell’ordinanza – riportava in primo luogo i commenti che su De Stefano effettuavano due ‘ndranghetisti storici, ossia Domenico Sonzogno ed Enzino Zappia, che De Rosa frequentava quotidianamente. D’altra parte Zappia non sopportava l’indagato che definiva pericoloso per la sua eccessiva mondanità e per i rischi di sovraesposizione per tutta la cosca cagionati dal suo comportamento irrazionale, dalla sua costante presenza nella movida reggina e dalle risse che ne scaturivano nei locali pubblici da lui frequentati, con conseguente necessità poi di scomodare la cosca per la soluzione dei problemi che innescavano.

De Rosa Enrico: “Enzo Zappia non lo cacava proprio, nel senso che per Enzo Zappia andava sciolto solamente nell’acido (…) era tutto con quei capelli raffinati, se ne andava locali locali a fare bordello, poi uno gli deve andare a parare il culo, si litiga con le persone, alle 5 le 6 di mattina è ancora in giro, secondo Enzo non aveva una buona condotta”.

Da qui la “soluzione” di rimandarlo a Milano con un duplice obiettivo: nella città lombarda Giorgino avrebbe potuto amministrare gli interessi economici che in quell’area coltivava la ‘ndrina e, al contempo, sarebbe stato opportunamente alla larga dagli ambienti calabresi, ove ancora non era in grado di muoversi con la dovuta riservatezza. Il tutto in compagnia di un tutor che veniva individuato dai De Stefano in Paolo Martino

DE ROSA: …lo hanno mandato a Milano, lo hanno cacciato per non prenderlo a calci in culo, lo hanno spedito fuori, non è soltanto svolgere, tipo, un’azione di presenza nella famiglia De Stefano negli interessi milanesi è anche perché a Reggio stava facendo danni della madonna. Nel senso, non dava una buona immagine, soprattutto al cugino Giovanni gli dava fastidio ‘sta cosa, che era troppo…poi si stava sempre, frequentava con ragazzini, tipo, di 25-26 anni che facevano bordello, insomma, che non erano…non erano, insomma, delle persone tranquille, che conducevano una vita riservata, erano troppo appariscenti; ma del resto, lui era troppo appariscente….”

D’altra parte Giorgino aveva manifestato sempre una notevolissima disponibilità di denaro. Gestiva a Reggio Calabria una lavanderia, poi rilevata dai fratelli Nava, e – nonostante l’esercizio commerciale non garantisse significativi introiti — ostentava costantemente il possesso di banconote di grosso taglio

DE ROSA: “aveva tipo… mazzetti da 500, non finiva mai… gli ho detto: “Giorgio ma dove li prendi? Le stampi forse…” e ne aveva una marea”.

Insomma Giorgio De Stefano non aveva rinunciato al vezzo di ostentare le proprie disponibilità economiche e di condurre una vita “pericolosamente appariscente”. Tale circostanza – annota il Gip – non mancava di suscitare le invidie di alcuni meno facoltosi sodali: tant’è vero che Gino Molinetti, parlando con i suoi familiari della scarsa propensione di Carmine De Stefano ad allentare i cordoni della borsa, menzionava polemicamente l’altissimo tenore di vita del fratello Giorgio:

Molinetti Luigi: “…quel porco …di suo fratello si _spende diecimila euro a sera champagne champagne e poi viene pure a dirti che non ha soldi …”.

All’apice della cosca: l’incontro con Alfonso Molinetti

Per il Gip Cotroneo le risultanze delle indagini indicano un Giorgio De Stefano già inserito ed attivo nella cosca omonima dai primi anni 2000. Risultanze che proverebbero come De Stefano abbia nel frattempo fatto tanta strada dentro la struttura di `ndrangheta ed abbia via via acquisito maggiore maturità e maggiore considerazione da parte dei fratelli più grandi, tanto da divenire il braccio destro del fratello Carmine.

In virtù di tale molo sarà proprio l’indagato ad essere inviato a Giugliano in Campania il 25 agosto 2019, accompagnato dal fido Antonio Randisi, al fine di discutere con il decano Alfonso Molinetti, che si trovava in regime di semilibertà, i fatti incresciosi che si stavano verificando all’interno della cosca e che minavano la sua compagine, il suo potere e la proiezione della sua forza criminale all’esterno.

Per gli inquirenti è l’incontro fra i direttivi di una cosca di `ndrangheta che discutono di tenuta della struttura, di ricostituzione di fratture pericolose, di progetti per il futuro, di validazione di vincoli storici e di sangue tra una delle frange più attive ed autorevoli della cosca De Stefano ed il direttorio.

I De Stefano erano molto preoccupati per l’atteggiamento insofferente alle briglie di Luigi (Gino) Molinetti e dei figli che avrebbe potuto essere foriero di pericolose spaccature capaci di indebolire la forza anche militare e numerica del gruppo e prima ancora dare l’immagine dannosa all’esterno di questo indebolimento (i Libri, ad esempio, avevano già percepito quel che bolliva in pentola e nonostante la vicinanza anche storica delle due cosche evidentemente non guardava con dispiacere ad una scissione dei Molinetti posto che un ridimensionamento della famigerata cosca De Stefano avrebbe avuto come contraltare un rafforzamento del potere dei Libri sul territorio) ed al fine di addivenire ad una sanatoria della spaccatura in corso Totuccio Serio si era dapprima incontrato con Carmine De Stefano per parlare dei dissidi intestini al sodalizio e, successivamente, aveva interloquito con Gino Molinetti per provare a ricucire la frattura. Ma il tentativo fallì.

In questo contesto si inserisce la visita di Giorgio De Stefano all’anziano Alfonso Molinetti. Visita che fu preceduta da un incontro al vertice con il fratello Carmine.

Annota ancora il Gip che insiste sulla caratura di Giorgio De Stefano:

Era un discorso di altissima levatura mafiosa e ricco di spunti programmatici di assoluta modernità quello che il De Stefano propinava al Molinetti Alfonso, rendendo chiara la strategia dei fratelli De Stefano, che avrebbe dovuto essere quella di limitare al massimo la presenza fisica a Reggio Calabria, ove asfissianti erano ritenute le attenzioni investigative, e lo spostamento solo geografico degli interessi altrove da dove avrebbero dovuto da quel momento in avanti gestire il territorio di elezione del sodalizio. Nessuna rinuncia, ovviamente, al controllo mafioso del “locale” di Archi: egli infatti sottolineava la possibilità di “scendere” a Reggio Calabria in modo più saltuario e clandestino, con sortite mirate alla risoluzione delle problematiche più rilevanti e non delegabili ai collaboratori del posto. In tal modo, si sarebbero raggiunti due risultati: evitare il costante monitoraggio delle forze dell’ordine, senza però abdicare al ruolo imposto dal nome e dalla storia del casato De Stefano. In sintesi, il territorio non avrebbe potuto essere abbandonato mai e per nessuna ragione salva la individuazione di persone di assoluta fiducia stanziali a Reggio Calabria e di un direttivo mobile lungo tutto il territorio dello Stato che facesse sortite frequenti e riservate a Reggio Calabria.