«A Reggio la verità si è travestita da menzogna»

Processo Ghota, il Procuratore Lombardo punta gli "invisibili" della 'ndrangheta

«In una terra come la nostra dove spesso la verità si è travestita da menzogna, noi abbiamo teso le mani verso la verità e la verità voleva uscire allo scoperto».

Ha i toni da resa dei conti finale il sostituto procuratore della distrettuale antimafia di Reggio Giuseppe Lombardo nei minuti iniziali di una requisitoria fiume che si srotolerà per le prossime 10 udienze e che coinvolgerà anche i pm Stefano Musolino, Walter Ignazitto e Sara Amerio. Cinque procedimenti confluiti in un unico processo, decine di udienze, imputati “eccellenti” e collaboratori di giustizia di primo piano: Ghota – il processo che punta ai vertici occulti del crimine organizzato reggino – approda in dirittura d’arrivo e per presentare lo sprint finale i magistrati reggini si giocano tutte le carte, tante, a loro disposizione, in un procedimento che, dice ancora Lombardo «rappresenta la sintesi di dodici anni di indagini».

GENERALI E SOLDATI

C’erano state le sentenze di Locri negli anni ’70, poi venne Olimpia al tramonto della seconda terrificante guerra di mafia, e quindi Crimine e il suo custode delle tradizioni: tutte sentenze storiche, tutte sentenze che convergono verso l’unitarietà della ‘ndrangheta, tutte che si fermano alle gerarchie canoniche della ‘ndrangheta. Un filo interrotto nella comprensione del fenomeno ‘ndranghetistico che il processo della distrettuale dello Stretto punta a risalire, fino a quegli “invisibili” che, nell’ipotesi dell’accusa, si pongono al di sopra degli stessi generali che presidiano il territorio dei tre mandamenti. Sono loro, sostengono i magistrati, il “ghota” della ‘ndrangheta reggina: personaggi conosciuti che si mischiano ad altri a cui è più difficile risalire e che formano, dice ancora Lombardo «le strutture più alte di governo della ‘ndrangheta, conosciute solo ai capi delle famiglie, i generali, i quali hanno il compito di informare l’esercito degli affiliati senza che siano noti gli ’invisibilì. Soggetti che hanno tentato di mimetizzare il loro ruolo verticistico  pur essendo già stati processati e condannati, come Paolo Romeo e Giorgio De Stefano».

LA SVOLTA DEL 77

Nessun capo unico sulla falsa riga di Cosa Nostra siciliana, ma un vertice “nascosto” in grado di interfacciarsi con i capi e suggerirne le strategie criminali. Un’organizzazione che si divide per nascondersi, moltiplicando e confondendo le tracce. Una strategia precisa, nata dopo la prima guerra di mafia e a cui Lombardo appiccica una data precisa: il 6 novembre del 1977. Quel giorno, l’uomo che da quella guerra era venuto fuori vincitore, fu freddato da un commando di fuoco a Santo Stefano d’Aspromonte.

«Giorgio De Stefano – ha detto Lombardo – cade in un agguato di ’ndrangheta dopo avere vinto la prima guerra contro i Tripodo e i Macrì perchè era il candidato naturale per diventare il capo unico nazionale e internazionale della ’ndrangheta, una strutturazione organizzativa che non poteva reggere alle inchieste. Da qui, la sua morte e la creazione dei ’Tre mandamenti – Reggio, Piana di Gioia Tauro e Ionico – vincolati ad un’unica strategia, con un vertice di “invisibili” demandato a risolvere ogni frizione tra cosche e all’interno delle cosche e dettare le iniziative criminali». Il procuratore aggiunto, infine, ha sottolineato che «Giorgio De Stefano e Paolo Romeo sono entità che hanno tentato di nascondere il proprio ruolo negli anni, ma i continui controlli, le intercettazioni delle forze di polizia, hanno permesso di chiarire le loro responsabilità».