Reggio durante gli anni della furia nazista: lo storico Franco Arillotta ai microfoni di CityNow


di Federica Campolo – “L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”.

Questo il monito solenne con cui Primo Levi affida alle generazioni che scriveranno la storia dopo Auschwitz il compito di fare memoria di ciò che è stato. Il folle progetto di sterminio degli ebrei, messo in atto durante la seconda guerra mondiale dal führer nazista Adolf Hitler, rappresenta uno degli episodi più atroci e spietati della storia, una carneficina che continua a sporcare le coscienze di chi nega l’orrore consumatosi nei campi di concentramento e che ha comportato il massacro di sei milioni di ebrei.

Il 1° novembre 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha così istituito una ricorrenza internazionale, il Giorno della Memoria, celebrata ogni anno il 27 gennaio per commemorare le vittime dell’Olocausto, noto anche come Shoah, (in ebraico השואה, HaShoah, “la catastrofe”).

In Calabria, testimonianza della furia nazista è presente a Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, dove si trova una struttura in cui vennero internati circa quattromila ebrei, provenienti da tutta Europa. Durante gli anni in cui la Germania di Hitler portava a compimento il suo spietato piano antisemita, la città di Reggio non ha sofferto i traumi provocati dall’odio nazista: a raccontarcelo è il professor Franco Arillotta, noto storico reggino.

Dopo il 1511 non è più possibile rintracciare alcuna testimonianza, né sotto il profilo sociale, né sotto il profilo economico, di presenze ebraiche all’interno della città di Reggio. Fino a quella data, la comunità ebraica reggina ( la cui presenza risale al IV secolo a.C.),  ricopriva un importante ruolo economico nella produzione della seta. La concessione di crediti da parte degli ebrei permetteva infatti agli artigiani reggini di realizzare l’intero ciclo di produzione della seta, senza però imbattersi in spirali di debiti difficili da estinguere. L’acqua calcarea presente nei terreni della città inoltre conferiva alla seta rozza appena filata, generalmente giallastra, un colore bianco permanente: tale caratteristica rendeva particolarmente pregiate e ricercate in tutta Europa le sete reggine.

L’assenza di pretese esose da parte dei banchieri ebrei e le proficue dinamiche economiche istauratasi avevano favorito una pacifica convivenza e facilitato una relazione positiva con la città di Reggio. I reciproci vantaggi ottenuti dal monopolio della seta avevano dunque agevolato i commerci reggini anche al di là del Mediterraneo, e preservato gli ebrei da repressioni, persecuzioni e qualsivoglia forma di discriminazione.

Reggio è sempre stata accogliente nei confronti degli stranieri: ha ospitato popolazioni arabe, francesi, spagnole e ha costruito una significativa relazione con la comunità ebraica, testimoniata dall’assenza di un ghetto ebraico all’interno della città. Esisteva (ed è ricordata ancora oggi nel nome della via) la giudecca, quartiere di residenza in cui gli ebrei sceglievano di risiedere, senza vincoli né opposizioni. «Non esiste alcuna  testimonianza che parli di un atteggiamento ostile di Reggio nei confronti degli ebrei che abitavano nella nostra città», conclude Arillotta.

Una virtuosa personalità reggina che ha legato il proprio nome alle vicende di internamento degli ebrei a Ferramonti, è quella del maresciallo Gaetano Marrari. Comandante all’interno del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, egli manifestò nobili atteggiamenti di correttezza, battendosi per la dignità e l’umanità della popolazione ebraica in un periodo storico di  persecuzioni e odi razziali. «Fatto significativo -precisa il professor Arillotta- che testimonia che noi reggini non siamo capaci di assumere atteggiamenti di ostracismo, negatività, opposizione nei confronti del prossimo».

Una recente testimonianza della sensibilità dei reggini verso quella che è stata la grande tragedia dell’olocausto è rappresentata dalla premiazione della poesia Per i bambini morti a Terezin, scritta dalla professoressa Minella Bellantonio, insignita del premio Anassilaos.
«Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso»: così Hannah Arendt denuncia l’inconsapevole volontà dei tanti uomini che si sono resi responsabili del grande crimine contro l’umanità che è stata la Shoah. Diventare collaboratori di un potere che nega i diritti umani rappresenta una sconfitta per l’umanità tutta. Nella giornata della memoria ricordare per non dimenticare non significa mera commemorazione dei fatti storici, ma rappresenta un momento di analisi di coscienza, un’occasione per riflettere su ciò che è stato affinché la banalità con cui il male si è insinuato nelle dinamiche politiche e ideologiche della storia possa essere lucidamente riconosciuto, condannato e, una volta per tutte, debellato.

Per i bambini morti a Terezin

Terezin  pioveva dolore

mentre i bambini cantavano

tristi litanie, favole dei loro avi.

 In fila sulla neve, sguardo d’orrore 

al posto del sorriso;

sogni  sterili di case e tazze di latte,

parole depredate di giochi.

“Un bottone ,mi manca un bottone.”

La kapò feriva con l’insolenza,

frustino in mano

conta e riconta i bottoni

delle nostre logore giubbe a righe.

“ Un bottone, che cosa è un bottone?

In ogni cassetto, di ogni casa

ne trovi  a decine, ma  a me ora

manca un bottone … mamma!

“I bottoni devono essere cinque

ed esserci tutti.

Qui non è permesso niente,

perderne uno o non abbottonarli

vi costerà la vita”.

Là ,infatti, non era permesso niente

neppure amare, neppure vivere!

Là tutto era un attimo,

un breve sguardo l’intera esistenza.

…e tutti gli occhi si chiusero lì a Terezin

 …e la notte calò gelida e turpe

…e le ossa ammucchiate alle ossa

…e la carne avvinghiata alla carne

..e i bambini morivano  per un bottone.

Ma il vento non ha soffiato troppo forte

affinché dimenticassimo …

e noi non abbiamo dimenticato

laggiù Terezin.

 

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