Spazio Psicologia 3.0: di cosa abbiamo veramente paura?

Sono diversi i recenti episodi in cui la gente com

Sono diversi i recenti episodi in cui la gente comune, impegnata nelle proprie quotidiane attività, ha impattato in momenti di terrore e panico talmente intensi da alterare la capacità di valutare realmente i fatti e da urlare istintivamente al rischio di un attentato terroristico. Ne sono esempio gli episodi di Torino, in cui il procurato allarme, senza che in effetti ci fosse alcuno scoppio, ma un boato procurato forse solo dal sommovimento determinato dall’impianto di condizionamento e areazione del sottostante parcheggio, ha visto un’intera folla allarmarsi ed attivarsi per scongiurare l’ipotetico dramma e quello di Reggio Calabria, dove il ritrovamento di tre borse “sospette” ha fatto scattare l’allarme Isis, con l’intervento immediato di Carabinieri ed Artificeri che hanno permesso di individuare il reale contenuto delle borse. “Da cosa realmente stiamo scappando?” La paura di un attacco terroristico provoca più allarme e tensione dell’attacco stesso. Potremmo dire che ormai si viva quotidianamente una forma di follia collettiva segnata dal terrorismo psicologico.

A parlare di questo delicato argomento è il Dott. Antonio Zuliani, psicologo e socio PLP

Il “Terrorismo psicologico” da cosa è alimentato?

Ritengo occorra distinguere tra il terrorismo e le reazioni emotive che comporta in tutti noi. Gli atti terroristici di fatto sono molto pochi nei paesi europei rispetto alla quotidianità e al numero di morti che determinano nei paesi mediorientali. Ciò nonostante, questi sporadici eventi europei determinano una preoccupazione molto diffusa proprio per la loro natura sempre più imprevedibile.

Questo lo possiamo comprendere se analizziamo l’evoluzione che ha avuto il terrorismo in questi ultimi anni trasformandosi, come affermano i numerosi studiosi, in una sorta di franchising, dove il singolo atto terroristico non fa più parte di un grande ed elaborato progetto (se così fosse sarebbe più facile intercettarlo da parte dei Servizi), ma diviene il gesto di un singolo che può facilmente essere rivendicato a posteriori. Proprio questa evoluzione ci fa sentire tutti più esposti rispetto al nostro bisogno di sicurezza: tutti possiamo divenire vittime all’interno delle nostre occupazioni quotidiane e non perché svolgiamo un determinato lavoro o compito che ci rende per questo possibili bersagli.

L’emozione “protagonista” di questa dinamica è sicuramente la paura. Qual è sua funzione?

Occorre ricordare che la paura è una reazione normale che tutti viviamo al possibile presentarsi di un pericolo. La paura non è da intendersi come un segno di debolezza, ma rispecchia un meccanismo mentale cognitivo che abbiamo ereditato dai nostri antenati. La paura quindi è una reazione adattativa molto importante, senza la quale non ci attiveremo di fronte a un pericolo.

Quali sono i meccanismi della paura?

I meccanismi cerebrali che entrano in gioco sono molto complessi, ricordiamo solo che possiamo dire di vivere due paure: una immediata irrazionale, determinata dal funzionamento delle Amigdale, che prepara il nostro corpo, anche attraverso il rilascio di sostanze chimiche quali l’adrenalina e le endorfine, alle reazioni di attacco in fuga che possono metterci al sicuro. A questa paura se ne affianca una seconda, che potremmo definire razionale, che funziona sulla base delle conoscenze che abbiamo depositato la nostra corteccia cerebrale; conoscenze ed esperienze che riguardano le strategie che noi abbiamo per far fronte a quel determinato pericolo. Quello che conta è il bilanciamento tra queste due paure: senza la prima rischieremmo di non reagire, ma senza la seconda ci sentiremo intrappolati di fronte un pericolo verso quale sentiamo di non abbiamo strumenti per difenderci. Ecco perché il lavoro di noi psicologi, questa ad esempio la mia attività professionale principale, è anche quella preparare le persone ad avere questi strumenti

Si può dire che siamo diventati “islamofobi”?

Mi auguro proprio di no perché tutti gli studi condotti sui grandi fenomeni di eccidi avvenuti nel secolo scorso si dimostrano che l’anticamera di questi fatti parte sempre dalla generalizzazione. Ovvero da ridurre la persona alla categoria di appartenenza. È successo ad esempio con gli ebrei in Germania e con i Tutsi nel Ruanda nel 1994 chiamati scarafaggi. Ritengo sia un compito sociale degli psicologi mettere in guardia da queste generalizzazioni ch, contrapponendo categorie a categorie, favoriscono lo sviluppo di atti aggressivi.

Aspettarsi un attacco terroristico ci fa sicuramente vivere in allerta, come già ho anticipato, perchè la paura di un attacco è più allarmistica dell’attacco stesso?

Brian Jenkins ha scritto che i terroristi “non vogliono che molta gente muoia, ma vogliono che molta gente stia a guardare”. Il mantenere questo stato di allerta è una delle strategie del terrorismo, al quale contribuiamo attraverso il meccanismo dell’euristica delle disponibilità. Tale meccanismo cognitivo ricorda la tendenza del nostro cervello ad accogliere messaggi facilmente comprensibili, ripetuti gli si incastrano senza fatica i listini già esistenti. Nel contesto del tema che stiamo trattando questa euristica ci spinge a interpretare tanti segnali deboli che arrivano (un rumore, uno sbandamento della folla, eccetera) come il segnale che è in atto un atto terroristico. Occorre imparare a riflettere su questi facili letture, anche perché leggere un evento nel modo sbagliato ci induca anche a mettere in atto strategie poco efficaci.

Quali sono, secondo lei, le caratteristiche psicologiche di un terrorista?

Nonostante in questi ultimi anni siano usciti decine di libri sul terrorismo non si è assolutamente riusciti a identificare quella che possiamo definire “la personalità terroristica”. Questo perché ci mancano assolutamente i dati empirici, ad esempio dei colloqui con i terroristi, che ci permettano di delineare questo profilo, sempre che esso esista. Possiamo ovviamente elaborare delle ipotesi. Ma sempre di ipotesi si tratta.

Se volessimo veramente comprendere cosa spinge una persona a un comportamento terrorista dovremmo concentrare la nostra attenzione, come afferma John Horgan, su tre fattori: il coinvolgimento della persona all’interno del terrorismo, l’impegno successivo a compiere gli atti terroristici, ma anche il disimpegno da questi, ovvero le motivazioni che spingono le persone entrate in questo circuito ad uscirne senza agire atti terroristici. Di tutto questo non sappiamo molto poco per cui ogni illazione potrebbe diventare pericolosa se la psicologia vuole affermarsi come scienza.

Grazie al Dott. Zuliani per l’ importantissimo contributo e per i numerosi spunti di riflessione. Di fronte all’idea di un attacco sperimentiamo ansia e paura soprattutto per quella che è la logica del terrorismo stesso: l’imprevedibilità, che annienta i concetti di tempo e di spazio e di potere/controllo personale.  Non dobbiamo avere paura di avere paura. E’ proprio infatti la possibilità di riconoscere ed accettare l’emozione negativa che si sta sperimentando che può aiutarci ad abbassare il livello di tensione. Quali sono  allora le strategie più efficaci per non farsi sopraffare dalla persistente ansia degli attacchi?  Quando l’ansia diventa preponderante occorre concentrarsi su se stessi. Ad esempio, se si deve affrontare un viaggio- che sia in aereo o in treno, recarsi in stazione o in aeroporto con un po’ di anticipo, prendersi del tempo per rilassarsi, portare con sé un libro e la propria musica preferita aiuta a distogliere la mente da pensieri negativi.

Rubrica creata e ideata da PLP Calabria

A Cura della Dott.ssa Gaia Malara