di Alessandro Sica – L’ultimo gong è arrivato anche per lui. Per ‘il più grande’. Muhammed Ali, campione di boxe e dei diritti civili è morto l’altra notte in Arizona a 74 anni. Tutti lo ricordano più per le sue lotte fuori dal ring, che per quelle dentro il quadrato.
Era la voce dei più deboli, icona del movimento di resistenza in Vietnam, ambasciatore dell’Islam, simbolo dei neri discriminati. Alla sua strepitosa carriera da pugile ed atleta ha intrecciato quella della lotta politica diventando un vero e proprio leader dentro e fuori dal ring.
La sua figura, grazie al carisma e alla forte convinzione in ogni sua battaglia, ha contribuito a modificare l’esito di molte scelte politiche e lotte sociali.
“Avevo apena vinto un oro alle Olimpiadi di Roma per gli Usa, ma quando rientrai a Louisville venivo ancora trattato da negro. Spesso nei ristoranti non mi servivano nemmeno.”
Raccontava così Muhammed Alì. Riuscì a scrollarsi di dosso la fetta di ‘bianchi’ che non lo apprezzava guadagnandosi rispetto e dignità. Ma la vera ‘liberazione’ avvenne attraverso la religione. Nei primi anni ’60 diventò musulmano e abbandonò il suo ‘nome da schiavo’ Cassius Clay mettendo da parte la religione dei padri e diventando amico di Malcom X.
Diventò nel giro di qualche anno il simbolo di orgoglio e indipendenza dei neri.
Nel 1967 rifiutò di arruolarsi per la guerra in Vietnam e molti giovani come lui lo seguirono in questa scelta più che coraggiosa.
“Non ho niente contro i Vietcong. Nessuno di loro mi hai mai detto nero” diceva Alì. Nel 1990 il pugile di sempre andò di persona da Saddam Hussein a Bagdad per chiedere la liberazione di alcuni prigionieri americani e la ottenne.
E’ morto un esempio di umanità e coraggio. Una leggenda che lascia il ricordo di momenti storici che hanno segnato la vita di tutti noi.
Un eroe. Un mito. Tanto che qualcuno ancora oggi afferma che senza di lui Obama non sarebbe mai diventato presidente degli Stati Uniti…