Cacciato dal Cosenza Calcio per il suo cognome. La storia surreale di Pietro Santapaola, nipote del boss 'Nitto'

E' stato escluso dalla squadra Primavera del Cosenza a causa del suo cognome. La colpa? Essere il nipote del boss

Considerato inadatto a vestire la maglia, escluso dagli allenamenti, quindi allontanato anche dal convitto dove viveva assieme agli altri ragazzi della primavera.

Sembrerebbe l’ennesimo sogno infranto di un campioncino in erba che non riesce a mantenere le promesse, se non fosse che il diciassettenne Pietro Santapaola Jr, da quel sogno chiamato pallone che lo aveva portato dai dilettanti fino alle soglie della serie B, sarebbe stato strappato via a causa del cognome che porta.

Suo padre – imparentato con la famiglia di Nitto Santapaola di Catania – è stato condannato in primo grado a 12 anni di reclusione con l’accusa di associazione mafiosa per fatti che risalgono a prima ancora che il ragazzo venisse al mondo, e proprio quel nome e quella condanna, potrebbero essere alla base dell’esclusione del calciatore dalla formazione giovanile del Cosenza. Una storia dai contorni surreali, esplosa nella prima settimana di marzo con l’esclusione dalla rosa primavera del giovane e poi via via peggiorata, con l’allontanamento del ragazzo da quella che era diventata la sua casa, fino all’approdo negli uffici della procura di Cosenza, dove l’avvocato Salvatore Silvestro ha presentato denuncia contro il presidente della società silana Eugenio Guarascio per violenza privata e mobbing.

ALLE SOGLIE DEL PARADISO

Pietro Santapaola al Cosenza ci arriva dopo essere stato scovato dagli osservatori rossoblu a Licata, nel massimo campionato dilettanti.

Giovane e molto dotato tecnicamente, il ragazzo era stato più volte convocato nella nazionale giovanile della Lega D e, a gennaio, si trasferisce sulle rive del Crati per quello che doveva essere il suo trampolino di lancio verso il professionismo pallonaro. Le cose inizialmente vanno bene: il passaggio dai campi polverosi dei dilettanti a quelli luccicanti della serie B è meno traumatico di quanto si potesse temere e il giovane si integra nei meccanismi della squadra primavera e nel nuovo spogliatoio. Poi, improvvisamente, il vento cambia e a quel ragazzino che sembra ancora più giovane dei suoi anni, viene comunicata dal responsabile del settore giovanile l’esclusione dagli allenamenti settimanali e di conseguenza, dall’organico dei convocabili per le partite.

«“Questo era il volere” del Presidente, Eugenio Guarascio – scrive l’avvocato Silvestro nella denuncia contro il presidente silano, pezzo da ’90 nel settore dei rifiuti in Calabria che prese la squadra all’indomani del fallimento del titolo sportivo –  perché lo stesso era venuto a conoscenza delle vicende giudiziarie che hanno interessato il padre».

Una sorta di reato “etnico”, con buona pace di tutta la retorica patinata legata ai valori dello sport che riabilita e non emargina e che, nella querela presentata dal legale, si “arricchisce” di particolari ancora più paradossali. Una della paure del presidente sarebbe infatti che «”il figlio di…” potesse rendersi autore di efferati delitti quali rapine o lesioni gravi nei confronti dei propri compagni di squadra».

TERRA BRUCIATA

Parole che pesano come macigni, considerando che stiamo parlando di un adolescente che ha passato la vita sui campi da calcio di mezza Sicilia prima dell’approdo in continente, e che ora sono al vaglio degli inquirenti. Parole che non hanno certamente lasciato indifferente l’allenatore della formazione primavera, Emanuele Ferraro,  che ha tentato in tutti i modi di impedire l’allontanamento del ragazzo dalla foresteria utilizzata dai calciatori in erba del Cosenza, schierandosi apertamente contro quella decisione tanto assurda quanto arbitraria.

Comportamento che non sarebbe piaciuto ai dirigenti del team silano che infatti, una manciata di giorni dopo gli eventi, non trovano di meglio da fare che esonerare il coach con un comunicato di tre righe in cui, ironia della sorte, lo ringraziano «per il lavoro fatto negli ultimi anni, augurandogli le migliori fortune professionali».

BOCCHE CUCITE

In città intanto i mugugni della tifoseria cominciano a farsi insistenti (quella di Cosenza è da sempre una firm dichiaratamente di sinistra, più volte protagonista di episodi di integrazione che coinvolgono lo stadio e il carcere), e trovano sponda negli ultras del Messina, città d’origine del calciatore, che hanno piazzato uno striscione all’esterno dello stadio cittadino che recita:

«Diffamato per il tuo cognome, Pietro Santapaola vero campione».

Dal canto suo, la società calcistica protagonista di questo presunto episodio di discriminazione su base parentale, si è chiusa in un ostinato quanto inspiegabile silenzio, rimandando ai prossimi giorni una presa di posizione ufficiale. Con la testa sotto la sabbia, stanno anche dalle parti dalla Lega di serie B (la Confindustria del mondo pallonaro di seconda serie), e dall’Associazione nazionale calciatori che ufficialmente non sono stati investiti dal problema. Non potranno far finta di niente invece alla Figc, visto che copia della denuncia presentata dall’avvocato Silvestro, è stata recapitata anche agli uffici di via Allegri.

Da qui, il fascicolo potrebbe finire nelle mani della giustizia sportiva (molto più rapida e draconiana nelle decisioni rispetto a quella ordinaria) e seguire un binario parallelo a quello  penale, per una storia amara che non sembra essere una novità nel mondo del calcio.