Coronavirus, la storia dello chef calabrese Paolo: 'Forse è tutto perso...'

Il 42ene catanzarese racconta la sua esperienza dalla Cina in Italia insieme alla sua famiglia tra speranze e sogni infranti

Tra i calabresi in Cina che hanno vissuto il dramma del coronavirus in questi mesi e che continuano tutt’oggi a subirne le tragiche conseguenze c’è Paolo Dodaro, di professione chef, originario di Borgia (Catanzaro).

“Siamo in quarantena al Policlinico Militare del Celio a Roma da sabato scorso. Con me, mia moglie e il nostro piccolo di otto mesi ci sono altre cinque persone arrivate da Wuhan. Ogni giorno ci misurano la temperatura almeno un paio di volte, poi tanti test, sia del sangue che, con il tampone, nelle narici e nella gola. Per fortuna – spiega Paolo intervistato da Huffpost – tutti i risultati sono negativi. Medici e infermieri ci visitano però sempre e solo con tute impermeabili, cappucci e mascherine”.

Il 42 enne catanzarese aveva aveva deciso, insieme alla famiglia di andare a visitare il paesino d’origine della moglie, a pochi passi dalla città di Yichan,

“Abbiamo avuto sfortuna. Abitiamo molto più lontano da Wuhan, a Yueyang, ma avevamo qualche giorno di ferie per festeggiare il capodanno cinese. Stiamo costruendo un ristorante italiano, un progetto molto ambizioso che non so se riprenderò più in mano, forse è tutto perso”.

Paolo Dodaro non aveva subito compreso la gravità della situazione fino a quando le autorità non hanno cominciato a recintare tutto.

“Siamo sopravvissuti grazie all’orto, ma non avevamo abbastanza latte in polvere per mio figlio. Quando la polizia locale mi ha contattato spiegando che l’Ambasciata italiana avrebbe messo a disposizione della mia famiglia un passaggio per raggiungere Wuhan e rientrare in Italia non ho avuto dubbi. Anche la mia famiglia, dalla Calabria, spingeva affinché rientrassi. E così, un paio di giorni dopo, un autista si è presentato davanti alla nostra porta per portarci via”.

La famiglia Dodaro rientra così in Italia.

“Mio figlio è così piccolo che si leva continuamente la mascherina – continua a raccontare a Huffpost – rimanere in zona era troppo rischioso. Wuhan l’abbiamo attraversata in auto. Non si vedeva gente in giro. Non c’era nessuno per strada. All’aeroporto di Wuhan ci hanno unito assieme ad una cinquantina di altre persone. Il volo era stato organizzato dalla Gran Bretagna in collaborazione con Italia, Francia e Spagna. Durante la tratta eravamo tutti ad una grande distanza gli uni dagli altri. Il personale di volo si è fatto vedere il meno possibile e solo completamente incappucciati e con le tute. Niente pranzi o cene, solo snack e pezzi di pane. Atterrati a Londra, dopo qualche ora, siamo stati messi su un aereo militare italiano. Siamo atterrati a Pratica di Mare e poi portati qui al Celio. Abbiamo una stanza tutta nostra, un balcone e una camera con i giochi per Antonio. Dobbiamo solo avere pazienza”.

Infine un commento sul governo cinese.

“Credo stiano facendo il massimo, anche con tutti gli stranieri. Vengono spesso a sincerarsi delle condizioni e se si apre la possibilità agevolano il più possibile il loro rientro nei paesi di appartenenza. L’igiene, soprattutto nei paesini di montagna, è alta. Si invita però a lavarsi sempre le mani, mentre riscaldare l’acqua prima di berla è una consuetudine presente già da prima del Coronavirus, anche se comunque non c’entra nulla. Ho fiducia nel modo in cui stanno affrontando il problema, sono un popolo che non si arrende mai. Spero in sei mesi di potere tornare. Se non sarà possibile proverò ad aprire un ristorante qui in Italia. Vivo in Cina dal 2014, un po’ di Italia non mi dispiace anche se logicamente ora sto ragionando a come mia moglie, dai tratti chiaramente orientali, potrà essere accettata quando usciremo dalla quarantena. Ho fiducia nei miei compaesani, vedremo”.