Loro ce l’hanno fatta, e con la pizza artigianale hanno costruito in sette anni una rete di otto locali a gestione diretta che, sotto l’insegna Berberè, dà oggi lavoro a 76 giovani. Pizzaioli con la laurea in Economia entrambi i due fratelli Aloe, di origini calabresi (Maida, in provincia di Catanzaro). Matteo Aloe (31 anni), una grande passione per la cucina dove ha fatto tutti i lavori – nascondendo di avere una laurea, confessa – per formarsi.
Nel suo percorso anche uno stage al Noma dello chef Renè Redzepi nell’anno in cui fu proclamato “Miglior ristorante del mondo” e una tesi di laurea sull’impresa di ristorazione di Davide Oldani. Il fratello Salvatore Aloe (37 anni), imprenditore più vocato al design e marketing.
Insieme hanno aperto nel 2010 due pizzerie a Bologna.
«Sette anni fa – racconta Matteo all’inaugurazione del locale a Roma – mangiare la pizza a Bologna era spesso una brutta esperienza, ora è tutto cambiato. Si parla di più di pizza, farine, lievito madre, ingredienti. L’insegna Berberè evoca un buon mix di ingredienti etiopi, dal fieno al peperoncino presenti nel piatto nazionale, lo zighini. E noi abbiamo puntato alla qualità degli ingredienti, scegliendo fornitori nel biologico (80%) e tra gli artigiani da Cetara a Salina, nonché sulla fidelizzazione dei clienti. Non abbiamo mai scelto zone tipicamente turistiche, ma residenziali in grandi città (Firenze, Milano, Torino, e ora Roma e due a Londra) ben collegate. Da noi devono venire, e poi tornare e non perché la pizza è bio ma perché è buona».
Innovative le tecniche dell’impasto, come l’idrolisi che è senza lievito, un processo di fermentazione spontanea del grano sperimentato dagli Egizi, e l’attenzione al servizio in sala e l’accoglienza. «C’è stata più volte l’occasione del franchising – dicono gli Aloe – ma abbiamo detto sempre di no per non perdere il controllo. Per noi è linfa vitale attingere nei piani di carriera tra i collaboratori più svegli, fare formazione e mantenere l’artigianalità».
La pizza ha un proprio stile, né romana né napoletana, ha la base croccante, il “cornicione” ma non si piega a fazzoletto. «Abbiamo scelto il forno elettrico – precisa infine Matteo – perché consente temperature costanti e cotture lente, 4-5 minuti rispetto ai consueti 90 secondi della tradizione partenopea. Ma la nostra, in ottica non spreco, si riprende bene anche riscaldata nel forno di casa».
Fonte: Il Corriere della Calabria