di Antonio Cormaci – Un documentario su una delle più tragiche storie dell’alpinismo, un kolossal, la pellicola che apre la 72esima edizione del Festival del Cinema di Venezia: questi elementi hanno rappresentato la responsabilità che il film dell’islandese Baltasar Kormàkur ha avuto nei confronti del pubblico. Responsabilità, forse, non proprio all’altezza delle aspettative.
Everest è un film dai due volti.
Da un lato c’è l’alta classe tecnica del film. La pellicola è uno splendido risultato di un lavoro minuzioso di grafica computerizzata di non poco conto. La violenza della montagna, la sua voracità, la sua maestosità e la sua grandezza vengono fedelmente ricostruite con un lavoro che ha portato davanti agli occhi del pubblico la montagna come fosse una ripresa dal vivo. Sorprenderà sapere che la maggior parte delle riprese sono in studio. Tecnicamente parliamo senz’altro di uno dei più grandi capolavori grafici degli ultimi 10 anni. immenso, totale.
Ma c’è l’altra faccia della medaglia, una dicotomia che sempre più spesso investe i kolossal del nostri tempi: la storia, la sceneggiatura. La trama del film, così come le rispettive sfaccettature psicologiche dei personaggi, non sembrano essere parte integrante di un progetto compiuto. La bellezza estetica del film sovrasta completamente la storia, che sembra non avere un fine e che pare non dare un senso alle stesse azioni dei personaggi. Nonostante il cast imporante, i veri protagonisti del racconto rimangono per tutta la durata della lunga pellicola Rob hall e Beck Wheaters, interpretati rispettivamente da Jason Clarke e Josh Brolin. La loro immagine oscura poi quella di altri attori come Sam Worthington e Jake Gyllenhaal, che portano così su schermo personaggi che non riescono ad incastrarsi perfettamente all’interno del contesto, con gli altri personaggi, creando così due “figurine” completamente slegate dal contesto e che fanno smarrire eccessivamente il pubblico. Il dramma, in pellicole come queste, è un elemento indefettibile. E per dramma si intende l’impasto caratteriale dei personaggi, il convergere delle loro azioni in un unico fil rouge. Si parla, peraltro, di una spedizione, dove la coralità dovrebbe essere data per scontata: si finisce, invece, per assistere ad una gara tra solisti.
