La Calabria è conosciuta in Italia e nel mondo per i più disparati motivi, alcuni veramente nobili, altri un po’ meno. Questa volta è La Repubblica, il secondo quotidiano più letto dagli italiani, a puntare i riflettori sulla nostra regione. Protagonista è il pane, un’antica tradizione tramandata negli anni.
Calabria e grano: una lunghissima storia d’amore perpetuata ancora oggi dalle giovani generazioni che non lasciano il Sud, e che restano con le mani in pasta.
Una “pasta” che contieni i segreti delle donne calabresi, le prime a capire l’importanza del grano e l’ampia selezione di prodotti che è possibile ricavare da esso. In Calabria l’ingrediente fondamentale per un pane ‘speciale’ è la segale, chiamata Jermanu, sentinella delle vette d’Aspromonte, in grado di sopravvivere al freddo rigido, inclemente anche a tale latitudine. Lo ricordano gli anziani di Canolo Nuova il borgo simbolo di una terra che si palesa con profumi indelebili quando i primi rintocchi di campane esortano al risveglio: la Calabria dei pani arcaici.
Il pane da Jermanu, da tempo immemore, fa da collante alla piccola comunità da pochi anni ritornata a disporre di sei forni comunali, uno dei rarissimi esempi di società ancestrale calabrese che “ha nel suo embrione, quale minimo comun denominatore, quattro case e un forno”, prendendo a prestito le parole di Walter CrìCrì fondatore e direttore dell’Istituto Nazionale Assaggiatori Pane. La spiga capelluta per la gente del posto è il simbolo della condivisione e l’isolamento a cui costringe l’Aspromonte, la durezza del paesaggio, spiegano il perché. Il pane sfornato oggi nasce da una vera e propria catena del lievito madre che lega le famiglie tra di loro da più di 60 anni. Conserva sotto la crosta spessa e scura ancora l’identità agreste originaria del luogo: le donne, a turno, nei secoli passati, salivano in quota ogni due settimane, quando ancora il paese originario era situato a valle, a rifornire di pane gli uomini occupati a condurre il gregge.
Il profumo dello Jermanu è deciso, il segreto della sua bontà sta nell’umidità trattenuta dall’impasto, che garantisce freschezza e sapore nel tempo e per tale motivo, suggeriscono i locali, da consumare due giorni dopo essere stato sfornato.
Nel pane in Calabria c’è la traccia più vivida del passato, un’eco che permane da usanze alimentari altrove scomparse, ricordo dell’era rurale antecedente alla riforma agraria degli anni ’50. A Cittanova ne ritroviamo un altro prezioso frammento. Bisogna scendere da Canolo, percorrere i tornati della Provinciale 1 verso la Piana di Gioia Tauro per gustare il sapore dolciastro della Cuzzupa: pane non lievitato preparato con farina di mais, il cibo dei più poveri nell’epoca in cui il grano era nutrimento solo per ricchi.
C’è poi la pitta chjina farcita con cotiche di maiale, alici e olive. Massima espressione di una cucina autarchica questa tipologia di pane, che come i piatti di una volta nasce in un tempo davvero lontano e per necessità: per testare il calore prima dell’infornata e dotare i carbonai che andavano a lavorare in montagna di un pasto nutriente facile da trasportare.
Seguire le tracce dei pani antichi significa percorrere arterie che portano dritto al cuore della regione. Sul versante ionico, il tratto della 106 lambisce l’areale da sempre vocato alla cerealicoltura. Da questo si dirama una “strada che lascia il mare, e si interna in una zona tutta gialla, con le colline che sembrano dune immaginate da Kafka”, come diceva Pasolini nel 1959 descrivendo il paesaggio dei calanchi del Marchesato crotonese. Si giunge al granaio della Calabria, su cui domina Cutro. Territorio che il regista-poeta scelse poi nel ’64 come location per girare alcune scene del Vangelo Secondo Matteo. Uno dei pochi pani ottenuto da grano duro, caratteristico per la crosta spessa, incisa dalla lama di coltello, la mollica porosa e il colore giallo è stato la bandiera del riscatto delle donne cutresi: fino a pochi decenni fa aprire un forno rappresentava l’unico sbocco economico e trampolino di emancipazione sociale per le orfane e le vedove.
Per conoscere a fondo la storia dei pani arcaici della Calabria, bisogna spingersi fino al confine settentrionale della Punta d’Italia, sul Pollino, e confrontarsi con donne dalle braccia forzute, abili addestratrici del fuoco, vocate ad un lavoro che si direbbe da uomini per cogliere la quinta essenza del pane antico calabrese. Bisogna fermarsi a Cerchiara. Il paese conta due mila abitanti, dodici forni, otto mulini storici di cui tre attivi, un museo del pane. La componente femminile è stata determinante per la fama del borgo e la sua economia. Della virtù di sfamare la famiglia le panificatrici ne hanno fatto un business oggi rinomato e apprezzato: i forni sono interamente in rosa e non è un caso che sorgano sotto il balcone o a pochi metri da casa.
Un passato umano dignitoso, quella Calabria da fotografia ingiallita ricordata con romanticismo, che adesso, grazie alla volontà di queste donne, per fortuna riprende vita in ogni forma di pane da loro forgiata.
Fonte: Repubblica.it