29 anni fa l’omicidio del giudice Scopelliti: ancora senza un colpevole

Fu un omicidio clamoroso

Tornava dal mare Antonino Scopelliti quel pomeriggio di 29 anni fa: a bordo della sua auto, solo e senza scorta, aveva risalito la collina che dalla spiaggia di Favazzina porta fino a Campo Calabro, il paesino dove era cresciuto e dove passava parte delle vacanze estive.

Una strada fatta mille volte prima ma che il sostituto procuratore generale di Cassazione non riuscirà a percorrere fino in fondo.

I killer, due a bordo di una moto, lo seguono sul tracciato, ed entrano in azione subito prima di una curva, a Campo Piale. I calibro 12 caricati a pallettoni non lasciano scampo a Scopelliti. Colpito alla testa due volte, il magistrato muore praticamente sul colpo accasciandosi sul volante della Bmw ancora in movimento che prosegue la sua lenta corsa fino a sfondare una recinzione e cadere nel dirupo dove sarà ritrovata.

Un omicidio clamoroso, arrivato con gli ultimi rinculi della seconda, devastante, guerra di ‘ndrangheta e che, a distanza di quasi 30 anni, resta ancora senza colpevoli.

IL GIUDICE

Entrato in magistratura ad appena 24 anni, Antonino Scopelliti aveva iniziato a farsi le ossa nel bergamasco prima di approdare, da Pm, a piazzale Clodio. Una carriera folgorante con la nomina a magistrato di Corte d’Appello prima e di cassazione poi. Ed è proprio da sostituto procuratore di Cassazione che Scopelliti entra in alcuni dei più importanti processi dell’era repubblicana. Tra le sue mani passano infatti le stragi di piazza Fontana a Milano e quella di piazza della Loggia a Brescia; e ancora gli omicidi dei magistrati Occorsio e Amato e quelli di Aldo Moro e Rocco Chinnici ma anche l’esecuzione del giornalista del Corsera Walter Tobagi e quelle di Calvi e Sindona. Mafia, terrorismo nero, terrorismo rosso: le inchieste di cui quel magistrato intransigente, che era riuscito a guadagnarsi anche la stima vera delle avvocature di mezza Italia, si occupa segnano alcuni dei capitoli più complicati della storia d’Italia. Quando il maxi processo di Palermo approda in Cassazione, è Scopelliti che se ne occupa. Lui sosterrà l’accusa davanti ai giudici del Palazzaccio.

I PROCESSI

In quei giorni del 1991, il giudice sta già dando una prima occhiata alla montagna di carte per il processo a Cosa Nostra. Da Roma si è fatto inviare i fascicoli ed è su quelle carte che probabilmente pensa di potersi rituffare dopo le ore passate al mare.

«Non l’avevano potuto controllare – racconterà il collaboratore di giustizia Leonardo Messina davanti alla commissione parlamentare antimafia nel dicembre del 1992 – e quando non li controllano, li ammazzano».

Due processi a distanza di pochi anni conclusi col medesimo risultato (condanna in primo grado e assoluzione in appello per il ghota di cosa nostra siciliana) che non sono riusciti a cristallizzare una verità di cui si intuisce soltanto la punta dell’iceberg. Poi il ritrovamento della presunta arma utilizzata dal commando di fuoco in un terreno agricolo nel catanese – da cui però gli inquirenti non hanno potuto tirare fuori quasi nulla – e la nuova indagine della distrettuale dello Stretto che vede tra gli imputati nomi pesantissimi nel panorama criminale calabrese e siciliano: Piromalli, Pesce, De Stefano, Tegano, Araniti da questa parte dello Stretto e mammasantissima del calibro di Santapaola e Messina Denaro dall’altra. Pentiti ritenuti non attendibili, mezze verità, sospette “tragedie”: l’omicidio di Antonino Scopelliti resta, ad oggi, uno dei pochi omicidi pesantissimi di mafia rimasto senza un colpevole.