Cocaina nei chicchi di caffè: l’operazione Pratì svela il legame tra i broker calabresi e i cartelli sudamericani

Tre i gruppi criminali individuati. Scoperta anche una famiglia dedita alla coltivazione ed al traffico di canapa

operazione pratì ()

Un pacco anonimo, destinato a un centro commerciale e riempito con chicchi di caffè. Un’apparenza innocua, che invece celava uno dei metodi più sofisticati mai scoperti dalla Polizia di Stato reggina. La cocaina era stata trasformata in chicchi finti, perfettamente mimetizzati, sigillati con odori tipici del caffè tostato per ingannare cani antidroga e scanner aeroportuali.

Un invio tramite corriere espresso internazionale DHL – completamente estranea ai fatti – ha insospettito gli investigatori per la modalità di spedizione e i destinatari fittizi. Nessuno avrebbe mai ritirato quel pacco. Nessun nome vero. Solo un meccanismo studiato per far arrivare il carico e recuperarlo in modo anonimo.

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I broker calabresi già radicati in Colombia

Il particolare della cocaina-caffè è emerso dall’operazionePratì”, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, guidata dal procuratore Giuseppe Lombardo. Un’inchiesta che ha portato all’arresto di 21 persone – 14 in carcere, 7 ai domiciliari – per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, coltivazione di canapa indiana e possesso illegale di armi.

A spiegare il livello della rete è stato Gianfranco Millissari, dirigente della Squadra Mobile di Reggio Calabria:

«I soggetti calabresi erano già radicati in Colombia, coinvolti direttamente nelle dinamiche associative locali. Sono loro a suggerire i metodi di occultamento, a trattare gli scali portuali, a decidere quando far partire le navi. Parliamo di figure che hanno alle spalle una lunga esperienza criminale, già note in contesti internazionali».

I soldi calabresi che comprano fiducia in Sud America

Quella dei chicchi non è solo una trovata originale: è la prova di quanto la ’ndrangheta sia diventata un interlocutore privilegiato dei narcos sudamericani. I calabresi si presentano con denaro in contante, con anticipi anche da 100.000 euro per singole forniture, dimostrando un potere economico capace di comprare silenzi e rotte sicure.

Secondo gli investigatori, l’acconto avrebbe potuto fruttare fino a 30 milioni di euro. E nonostante la pandemia, che ha rallentato i movimenti internazionali, la rete non si è fermata. Anzi, ha raffinato i metodi.

«Per i nostri indagati spostare 100 mila euro è una prassi. E oggi siamo davanti a soggetti in grado di influenzare le scelte dei cartelli sudamericani», ha sottolineato Millissari.

Falsi destinatari, tracciabilità azzerata

L’espediente dei pacchi anonimi è solo uno dei tanti dettagli emersi. In alcuni casi, i carichi venivano indirizzati a centri commerciali o di smistamento. Nessun nome, nessuna firma. E dietro, la certezza che qualcuno, prima o poi, avrebbe intercettato quel pacco nel caos quotidiano delle spedizioni commerciali.

Non un errore. Ma una strategia. Un sistema pensato per neutralizzare ogni forma di tracciabilità.

La coltivazione di canapa “specializzata”

Due le associazioni criminali principali coinvolte nel traffico di droga, con ruoli ben definiti tra promotori e finanziatori. Ma l’inchiesta ha fatto emergere anche un terzo gruppo, dedito alla coltivazione diretta di marijuana.

Molti degli indagati appartengono alla stessa famiglia e avevano avviato piantagioni ad altissima redditività, con investimenti minimi e guadagni stimati fino a 60 mila euro per ciclo produttivo. Gli indagati, consapevoli delle logiche criminali, si stavano già muovendo per assicurarsi il consenso delle cosche operanti su nuovi territori, in particolare a Gerace.

«Questo aspetto – aggiunge Millissari – ci ha permesso di approfondire la conoscenza di queste dinamiche, che mostrano come ogni attività illecita venga avviata solo dopo aver ottenuto il via libera da soggetti di vertice della ’ndrangheta locale».

Infine, per alcuni soggetti ancora all’estero, è stato attivato il canale Interpol per il coordinamento internazionale delle ricerche.

L’inchiesta della DDA ha fatto emergere molto più di un traffico di droga. Ha rivelato la presenza di una rete che non solo controlla il territorio, ma che tratta alla pari con i cartelli colombiani. Che conosce rotte, costi, strategie. Che sa quando muoversi. E soprattutto come passare inosservata.