Le mani della 'ndrangheta sul petrolio: i protagonisti dell'asse reggino

Nel vibonese pensavano in grande, ma le cosche reggine non erano rimaste a guardare

Settantuno arresti, più di 200 indagati, quasi un miliardo di euro di sequestri tra società, conti correnti in sei diverse nazioni e valige piene di contanti: sono numeri da capogiro quelli dell’operazione “petrol mafie spa” condotta dalle distrettuali antimafia di Reggio, Catanzaro, Napoli e Roma con il coordinamento della Dna. Al centro dell’ennesimo esempio di infiltrazione mafiosa all’interno dei più remunerativi settori dell’economia, un traffico gigantesco di prodotti petroliferi fatto passare attraverso decine e decine di società cartiere, messe in piedi per aggirare il fisco e sfuggire al pagamento di accise e tasse. Milioni di litri di carburante (spesso di pessima qualità) che arrivava dall’est Europa per finire, dopo un giro vorticoso in depositi sparsi in tutto il Paese, nelle pompe di benzina, soprattutto quelle dei distributori “bianchi” (cioè non legati alle grandi multinazionali del petrolio).

INCROCIO DI INTERESSI

Sono tre i diversi filoni d’indagine confluiti nella maxi operazione odierna che ha visto in campo gli uomini dello Scico della guardia di finanza e del Ros dei carabinieri. Tre indagini portate avanti da quattro procure diverse che hanno certificato la convergenze delle organizzazioni mafiose calabresi e campane nel settore dei petroli. Un mercato così redditizio da coinvolgere gli appetiti di alcune tra le più influenti consorterie del crimine organizzato. Al banchetto del gasolio spacciato per combustibile agricolo (e della montagna di denaro e dall’attrattività economica che deriva dal mancato versamento di tasse e Iva) si erano infatti seduti tutti i pezzi grossi, dai Mancuso ai Piromalli, passando per i Pelle, i Cataldo e i Moccia di Napoli. Un giro d’affari vorticoso di denaro e aziende, reso possibile dalle “prestazioni” di numerosi colletti bianchi al soldo dei clan che, oltre ad avere messo in piedi tutte le società finte finite nella rete tesa dagli inquirenti, si occupavano di creare migliaia di false operazioni dietro cui nascondere la maxi truffa fiscale.

IL DEPOSITO GALLEGGIANTE

A sancire la rilevanza economica dell’affare e la capacità finanziaria messa in campo dalle famiglie di ‘ndrangheta interessate, i magistrati di Catanzaro hanno monitorato l’arrivo in Calabria di un grosso petroliere kazako e il suo successivo incontro con D’amico (l’imprenditore tratto in arresto oggi e considerato come espressione del clan dei Mancuso) in un ristorante di Vibo. Un incontro a cui hanno partecipato anche due broker finanziari («che sono stati arrestati stanotte a Milano» ha sottolineato il procuratore Gratteri) e che aveva come obiettivo quello di creare i presupposti per la costruzione di un deposito di carburante  galleggiante da piazzare al largo delle coste vibonesi e che sarebbe stato collegato con l’area industriale di Portosalvo e che avrebbe assorbito il flusso di oro nero proveniente dall’ex repubblica sovietica.

L’ASSE REGGINO

E se i Mancuso nel vibonese pensavano in grande, le cosche reggine non erano rimaste a guardare. Anche perché, hanno più volte sottolineato gli inquirenti durante la conferenza stampa, il giro di denaro era davvero imponente. Fulcro delle indagini della distrettuale antimafia dello Stretto, gli imprenditori Vincenzo e Gianfranco Ruggiero (espressione dei Piromalli di Gioia Tauto), Domenico e Giovanni Camastra (interfaccia imprenditoriale dei Cataldo di Locri) e Giuseppe Del Lorenzo che rappresentava gli interessi della cosca dei Labate: tutti catalizzatori degli affari dei clan per una “tavola imbandita” che aveva messo tutti d’accordo. «Dobbiamo fargli capire che siamo tutti la stessa cosa» dice intercettato un esponente dei Mancuso ai rappresentanti dei Pelle di San Luca e dei Morabito di Africo, riuniti per concertare le richieste da avanzare congiuntamente alle famiglie di Cosa Nostra siciliana che volevano entrare nell’affare.