Salute mentale e i suoi disturbi, la cultura degli altri: l’approccio etnopsichiatrico

L’etnopsichiatria si occupa di studiare e di classificare i disturbi e le sindromi psichiatriche in relazione al contesto culturale in cui si manifestano

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è”. Marcel Proust

Negli ultimi decenni, la società in cui viviamo è andata incontro a grandi cambiamenti in senso multiculturale, grazie ai processi migratori che, se hanno favorito proficui scambi tra culture diverse, hanno anche determinato momenti conflittuali e di discriminazione. Nell’area medica, ad esempio, quello che non è medicina convenzionale, definita medicina alternativa o tradizionale, è considerata spesso una medicina di rango inferiore, basata su modalità di trattamento non riconducibile ai parametri di evidenza scientifica riconosciuta. Tuttavia, dal momento che buona parte del mondo funziona su modelli non occidentali, si rende necessario uno sforzo conoscitivo che integri i diversi aspetti di cura.

In tale contesto l’approccio al disagio psichico presenta aspetti di ulteriore complessità, dal momento che la cultura condiziona l’espressione dei contenuti psicopatologici e l’interpretazione dei comportamenti oggettivamente disfunzionali. Tutto ciò ha determinato la nascita di un’area psichiatrica, “l’etnopsichiatria” che si occupa di studiare e di classificare i disturbi e le sindromi psichiatriche in relazione al contesto culturale in cui si manifestano e al gruppo etnico di provenienza o di appartenenza del paziente.

L’osservazione culturale del disagio psichico ha radici risalenti all’antichità, tuttavia, il campo dell’etnopsichiatria si è sviluppato in modo significativo nel XX secolo, grazie al lavoro di diversi pionieri. Tra i tanti antropologi che hanno contribuito alla teorizzazione dell’importanza culturale nella genesi dei comportamenti (da Franz Boas a Arthur Kleinman), Georges Devereux, antropologo e psicoanalista francese, ha avuto un ruolo di indubbia rilevanza. Fondatore del campo teoretico dell’etnopsichiatria nel 1951, Devereux ha analizzato la cultura dei nativi americani, evidenziando, in relazione al contesto socio-culturale, le differenti espressioni sintomatiche e la relativa interpretazione dei sintomi nelle patologie mentali. Nondimeno, l’approccio etnopsichiatrico clinico nasce dalla scuola francese di Tobie Nathan, psicoanalista e antropologo franco-egiziano.

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Uno dei concetti chiave affrontati da Nathan riguarda il concetto di ‘normalità’, considerato come un’idea strettamente legata alla cultura. Secondo questa prospettiva, all’interno dei disturbi mentali emergerebbero “sindromi culturali” con caratteristiche peculiari che sono difficili da classificare secondo le convenzioni nosologiche internazionali consolidate e sono associate a specifiche popolazioni o aree culturali. Esempio tipico è la “Sindrome di Koro” riscontrata nell’Asia del Sud e dell’Est. Il termine è di probabile origine malese e si riferisce ad episodi di improvvisa intensa preoccupazione che il pene, nel sesso maschile, o la vulva e i capezzoli, nel sesso femminile, possano rientrare nel corpo e causare la morte; colpisce singoli individui o a volte si presenta in forma epidemica.

Tale sintomatologia sembra essere compatibile con una nevrosi di tipo ipocondriaco e può coinvolgere anche i familiari. Quanto sopra riportato, preso atto della realtà multietnica che si sta affermando in Italia, richiede che l’approccio etnopsichiatrico venga realizzato in ogni singolo ambulatorio con la presenza di gruppi di intervento di diversa formazione e cultura (psicoterapeuti, medici, antropologi, mediatori culturali, operatori socio-sanitari, familiari) allo scopo, fra gli altri, di evitare che le competenze specialistiche orientate alla cura creino situazioni di incomprensione e fraintendimento note come “malintesi culturali”.

Ricollocare il paziente nel proprio quadro di riferimento culturale e comunitario, infatti, può solo favorire l’espressione dei suoi sistemi di pensiero, il riconoscimento della sua identità e la comprensione del suo disagio psichico.

dott.ssa Fiammetta Iannuzzo