Canta ed elogia i malandrini, Merante centra l'obiettivo: tanta pubblicità (gratuita) e pessima musica

Testi imbarazzanti che spaziano dalle corna coniugali ai carcerati, catturando l’attenzione di quel (numeroso) pubblico fissato di “malandrineria”

Saltano fuori ciclicamente, sempre urlate, sempre uguali: le campagne di sdegno contro “i canti di malavita” – questa volta corredate da esposto del sindacato di polizia in procura – arrivano come le mareggiate di scirocco: violente, effimere e foriere di macerie. E proprio come per le mareggiate di scirocco, il più delle volte si risolvono dietro un gran rumore indistinto che svanisce in poche ore. Questa volta, sotto i riflettori c’è finita Teresa Merante «una cantante che predilige il genere folk etnico» come spiega sui suoi social che viaggiano con numeri da influencer a sei crifre.

Nel catalogo on-line della cantante – anche qui i numeri, quasi 500 mila ascolti su Spotify nel 2020, fanno riflettere – si trova un po’ di tutto, e questo tutto ha un denominatore comune fatto di scarsissime doti musicali e testi imbarazzanti che spaziano dalle corna coniugali ai carcerati, catturando l’attenzione di quel (numeroso) pubblico fissato di “malandrineria” e ammaliato da distorti revisionismi del passato preunitario. Pubblico che una volta assaltava le bancarelle delle feste di paese cercando musicassette e cd sui banconi dei vucumprà e ora naviga nella musica liquida del suo smartphone comprato a rate.

CANTI DI MALAVITA

Qualche anno fa, subito dopo la strage di Duisburg del 2007, in Germania emersero canti e ballate che raccontavano, esaltandole, le storie di fantomatici personaggi ‘ndranghetistici ammantati di auree da antieroe ante litteram. Un vero e proprio boom di vendite, concerti e contatti online che catturarono anche l’attenzione del maggior settimanale tedesco “Der Spiegel”, e che finirono, come nella migliore delle rappresentazioni della commedia all’italiana, con un’indagine della procura sulle presunte minacce subite dal titolare del museo della ndrangheta che si era visto piombare in ufficio, un paio di personaggi improbabili, che chiedevano conto dei loro “diritti d’autore” sui loro testi esposti agli studenti come antropologia ndranghetista. Nel mezzo, le polemiche sul video trap – storia di un paio di anni fa – su Glock 21, il rosarnese imparentato con i Bellocco che cantava con la faccia cattiva del rapper da gang del ghetto, sbandierando mitra e orologi d’oro. «I calabresi non sono tutti così» ammoniva il ghota del giornalismo italiano che indicava il rolex e ignorava il paesaggio post apocalittico che faceva da sfondo al video e che rappresenta la realtà quotidiana per circa 15 mila abitanti di una normale cittadina del reggino. Poi, dopo la sbornia mediatica, Glock 21 è tornato nell’oblio che si meritava, il paesaggio post apocalittico invece è rimasto tale e quale.

PUBBLICITA’ GRATUITA

Quello che salta fuori ogni volta che esplode una polemica sui canti di malavita – che, giova ricordare a tutti, continuano ad avere il loro mercato semiclandestino fatto di emigrati delle generazioni più anziani, sottoproletari di periferia, e semplici fissati con il fatto che tutto quello che è folk fa rima con calabresità – è la pubblicità gratuita fatta a pseudo artisti il cui unico merito è stuzzicare la falsa coscienza di chi crede che il problema della Calabria sia la canzone su “Ossu, Mastrossu e Carcagnossu”, che tra l’altro è il fulcro del primo, memorabile, libro scritto dal procuratore Nicola Gratteri. C’è da rammaricarsi che simile sdegno non spuntò fuori ai tempi degli “Omerthà” (che con un nome simile, adesso, si sarebbero tirati dietro gli strali di tutti): quella band, negli anni ’90, suonava il grunge e cantava in dialetto l’alienazione della provincia profonda: magari suonerebbero ancora.