Villa S. Giovanni, serata d'esordio al Teatro Primo per “Piagata. L'ultimo dei Miracoli” - FOTO

"C’è qualcosa che accomuna l’uomo alla marionetta: il non essere mai realmente libero"

C’è qualcosa che accomuna l’uomo alla marionetta: il non essere mai realmente libero. Ciò che per le marionette sono i fili che le vincolano alla possibilità di muoversi, per l’uomo sono quelle convenzioni sociali che, spesso, generano vittime. Bravi sono stati Domenico Loddo e Tiziana Calabrò a metterlo per iscritto in “Piagata. L’ultimo dei Miracoli” testo teatrale portato in scena da Christian Maria Parisi, con Silvana Luppino e Tino Calabrò (produzione DRA.C.MA ).

Lo spettacolo ha inaugurato la stagione del Teatro Primo di Villa San Giovanni, andando in scena sabato 9 novembre (ore 21:00), e in doppia replica di domenica 10 (18:15 e ore 21:30). L’espediente drammaturgico della marionetta introduce la vita di Benedetta, giovane marionettista proveniente da un piccolo paese del sud d’Italia che, dopo una notte di incubi e incontri con angeli dai rossi mantelli, si sveglia con le stimmate. Da allora, un coro di voci angeliche, la assedia fuori di casa – luogo in cui è costretta a nascondersi – per invocarne non tanto la santità, quanto il bisogno cristiano di soddisfarne miracoli.

La sua forzata condizione claustrofobica è interrotta dall’arrivo di Lorenzo, “lo scemo del paese”, che entra di soppiatto in casa con il bisogno di chiodi per appendere un quadro. Se la vita di una marionetta è legata alle mani di chi la manovra, quella di questa donna è determinata dalle proprie, afflitte da piaghe sanguinanti che gli altri vorrebbero pro populo («Non è Dio che cercano: è il miracolo», incalza lui. «Come posso salvare loro, se non riesco a salvare neanche me stessa?», commenta lei). Su una grande impalcatura i due interpreti consumano il loro tempo assieme (la scenografia, curata da Valentina Sofi, incanta fin dall’ingresso nel foyer).

Diversi gli elementi che ci vivono: un secchio, delle bende, quattro marionette, e poi stracci, contenitori in vetro, una giostra in ferro. Su tre livelli, Benedetta e  Lorenzo si svelano. Benché agli antipodi, non è diverso il dolore che li attraversa, perché è nella solitudine che si consuma. Mentre lui cerca di mostrarle la forza della fede, lei è sorda, ma, soprattutto, ferita da una società che la vorrebbe santa perché molto vicina a Cristo; quella stessa società che l’ha consacrata all’isolamento, persino allontanata dall’uomo che amava. Non da meno lui è ripudiato da tutto il paese, in primis dal padre. Il linguaggio ricercato e tagliente, alterna momenti di serrata corrispondenza a pause il cui il silenzio trova la sua giusta eloquenza e lì, le emozioni sono libere di respirare e vivere nella commozione del pubblico e degli attori in scena.

Senza mai consegnarsi alla blasfemia, anche se volutamente dissacrante,  il lavoro a quattro mani degli autori è ben curato: non ci sono sbavature, non è mai ridondante, neanche in quegli elementi che tornano più volte in scena (i canti delle suore, le urla contro di esse, la fede in contrasto dei protagonisti). Tanto il linguaggio di lei è ricco di parole di disprezzo urlate a pieni polmoni, quanto quello di Lorenzo mitiga tutta questa rabbia, con una pacata dolcezza verbale e gesti d’amore spontanei. Un plauso in particolare va ai due interpreti della storia: Silvana Luppino e Tino Calabrò, capaci di dare un volto ai due protagonisti. I corpi dicono di loro molto prima che le loro voci parlino: la goffaggine di Lorenzo ne svela l’animo infantile, buono e umile; quello contratto e vittima di spasmi di Benedetta rivela un dolore fisico che trova nelle piaghe la sua spiegazione.

L’attrice, cammina sui dorsi per tutto lo spettacolo: la sua sofferenza invade la platea. Questo spettacolo sembra trovare la sua conclusione in due momenti ben precisi, ma ne è riservato un terzo interpretato da Arlecchino e Pulcinella, marionette a cui Benedetta aveva fatto interpretare Beckett. Per quanto quest’ultima scena voglia affondare a grandi mani in quel teatro dell’assurdo che trova nei dialoghi senza senso e negli elementi apparentemente slegati tra loro e privi di significato alcune delle sue caratteristiche, qui – a conclusione di uno spettacolo ben costruito – provoca una certa disarmonia. Forse, se di queste due marionette ne avessimo scorto traccia fisica nel corso della pièce, ci sarebbero stati dei  raccordi narrativi che avrebbero potuto dare alla conclusione un maggiore di respiro.

FOTO DI PIETRO MORELLO