100 anni da ‘La coscienza di Zeno’: a Reggio l’omaggio di Anassilaos a Svevo

Nella figura del protagonista, Italo Svevo ritrasse se stesso e insieme la tragedia di una disperata umanità

SVEVO RITRATTO

Cento anni fa veniva pubblicata “La Coscienza di Zeno”, terza prova narrativa dello scrittore Aron Hector Schmitz, meglio conosciuto come Italo Svevo, un’opera “rivoluzionaria” per la letteratura italiana dell’epoca ancora inebriata dalla retorica dannunziana, che passò del tutto inosservata fino a quando, qualche anno dopo, sulla scorta del clamore suscitato nei circoli letterari francesi, fu scoperta in Italia da Eugenio Montale che diede vita al “caso Svevo”.

Di questo e di altro parlerà la Prof.ssa Francesca Neri giovedì 20 luglio alle ore 18,00 presso la Villetta De Nava nel corso di un incontro promosso dall’Associazione Culturale Anassilaos, congiuntamente con la Biblioteca De Nava nell’ambito dell’Estate Reggina 2023.

Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz (Trieste 1861 – Motta di Livenza 1928), è una presenza anomala nel panorama culturale e letterario italiano. A spiegare tale “anomalia” giova ricordare la sua città di nascita, Trieste, oggi italianissima ma ancora, fino al 1918, anno in cui entrò a far parte del Regno d’Italia, principale scalo marittimo sull’Adriatico dell’Impero Austro-ungarico.

L’impero della Duplice Monarchia, che univa l’Austria e l’Ungheria, era una compagine statuale multietnica, multilinguistica e, di riflesso, multiculturale.

Polacchi, Cechi, Slovacchi, Tedeschi, Ungheresi, Italiani, Croati, Sloveni e Slavi del Sud, per citare soltanto le etnie più numerose e importanti, ne costituivano la popolazione e soprattutto, negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, rappresentavano un fattore di disunione e di crisi per l’insorgere del nazionalismo che aspirava, di volta in volta, all’autonomia nella cornice di uno stato unitario che aveva la massima rappresentanza nell’imperatore, dal 1848 e fino al 1916, Francesco Giuseppe, o alla piena indipendenza o, e questo è il caso degli Italiani, sudditi dell’impero, al ricongiungimento con il Regno d’Italia, del Trentino, della Venezia Giulia, dell’Istria e di Trieste stessa. Nonostante il senso di precarietà che pervadeva l’impero e la consapevolezza di una prossima fine (dissoluzione che avvenne all’indomani della Grande Guerra) gli ultimi decenni dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento furono fecondi sul piano della ricerca scientifica, delle arti, della filosofia con risultati che influenzarono profondamente la cultura europea.

In quegli anni Sigmund Freud scopriva l’inconscio e inventava la psicoanalisi; il Circolo di Vienna, sorto nel 1922, filosofico e culturale, creava il positivismo logico, sul presupposto che la filosofia dovesse aspirare al rigore della scienza e Ludwig Wittgenstein, con la sua unica opera pubblicata, Il Tractatus Logico-Philosophicus, apriva nuove vie al pensiero moderno; nel campo dell’arte figurativa e dell’architettura nasceva la Secessione Viennese che propugnava l’ideale di un’opera d’arte totale che puntava ad una fusione completa delle arti che ebbe in Gustav Klimt, che decorò il Palazzo della Secessione di Vienna, il suo artista di punta.

Ma oltre a Klimt occorre ancora ricordare Egon Schiele esponente assoluto del primo espressionismo viennese insieme a Oskar Kokoschka.

E sul piano letterario la narrativa dirompente di Franz Kafka, boemo di lingua tedesca, espressione dell’angoscia dell’uomo moderno dinanzi all’esistenza e la poesia di Georg Trakl, morto suicida nel 1914, espressione in versi di questa medesima angoscia che pervade anche la musica del più grande musicista austriaco, compositore e direttore d’orchestra, Gustav Mahler. Questo rigoglio culturale, artistico e filosofico non può ovviamente nascondere le profonde contraddizioni di una società colta e prospera; le disuguaglianze sociali ed economiche sempre più accentuate, le lotte operaie per la conquista dei diritti sindacali, l’irrompere del razzismo e, soprattutto, dell’antisemitismo. A Vienna nel 1908 giungeva un giovane ancora sconosciuto che nella capitale dell’Impero sperava di realizzare i suoi obiettivi artistici. Aveva un discreto talento ma non superò l’esame per entrare all’Accademia d’Arte. Visse così nella grande città con pochi mezzi, colse la fragilità di una struttura sociale ingiusta ma soprattutto si avvicinò all’antisemitismo grazie al pubblicista Lanz Von Liebenfels e a Karl Lueger, borgomastro di Vienna.

Quel giovane diciannovenne si chiamava Adolf Hitler e di lì a pochi anni, nell’aprile del 1938, sarebbe tornato da trionfatore nella Vienna in cui era vissuto quasi da derelitto e un anno dopo (il 1 settembre del 1939) avrebbe acceso la miccia della Seconda Guerra Mondiale. Hector, figlio di un commerciante ebreo, Francesco Schmitz e di una italiana, Allegra Moravia. nacque in questa realtà, contraddittoria ma ricca di fermenti; in un contesto culturale che ben a ragione chiamiamo “mitteleuropeo”, di vasto respiro e destinato ad aprire nuovi orizzonti, di cui Trieste era parte significativa.

La sua vita esteriore non presenta tratti avventurosi e degni di rilievo. Visse in una famiglia numerosa e senza particolari problemi. Studiò insieme ai fratelli Adolfo ed Elio al collegio di Segnitz, presso Wurzburg in Baviera e li si appassionò alla letteratura leggendo in lingua originale Schopenauer e Jean Paul Richter ed altri autori inglesi e russi. Completati gli studi ritornò nella città natale e seguì gli studi commerciali presso l’istituto Giuseppe Revoltella con scarso interesse perché le sua vera passione era la letteratura. Tra il 1880 e il 1890, con lo pseudonimo di Ettore Samigli, collaborò con il giornale irredentista L’indipendente e cominciò a scrivere, con scarso successo, racconti e opere teatrali.

Si impiegò nel 1880 presso la succursale triestina della banca Union. Nel 1892, anno in cui morì il padre, pubblicò a proprie spese presso l’editore Vram di Trieste, il suo primo romanzo, composto tra il 1887 e il 1889, “Una Vita” il cui titolo originario era Un inetto, nel quale, per la prima volta, assunse lo pseudonimo di Italo Svevo. L’opera incontrò uno scarso successo. Nel 1896 sposò la cugina Livia Veneziani e due anni dopo, nel 1898, pubblicò il secondo romanzo Senilità che venne come il primo, ignorato dalla critica. A partire dal 1899 si occupò della gestione della Ditta Veneziani, di proprietà del suocero che produceva vernici sottomarine. Un’attività prospera in una città economicamente fiorente nella quale rivelò un notevole fiuto per gli affari. Inoltre tale sua attività gli consentiva di viaggiare all’estero e di coltivare la passione per la letteratura. Incontro fondamentale per il nostro scrittore tra il 1905 e il 1906 fu quello con James Joyce, il futuro autore dell’ Ulisse, che insegnava presso la Berlitz School di Trieste. Tra i due si stabilì un rapporto di stima e amicizia che non mancherà di dare i suoi frutti in seguito.

Svevo, che non conobbe personalmente Freud, si avvicinò intanto alla psicoanalisi di cui lesse alcune opere e che a Trieste era conosciuto e apprezzato grazie all’opera di Edoardo Weiss, psichiatra, amico e allievo di Freud che ebbe, tra l’altro, il merito di introdurre la psicoanalisi in Italia. Egli non credeva però che la psicanalisi, a causa forse della esperienza negativa del cognato, fosse utile a curare la malattia mentale quanto piuttosto un mezzo utile ad esplorare il proprio mondo interiore e quindi un tentativo di Sfuggire a quel male di vivere che permeava l’uomo moderno.

Nel 1923 – cento anni fa – egli pubblicò infine il suo capolavoro, La Coscienza di Zeno a cura dell’editore Cappelli. Nella figura del protagonista, Zeno Cosini, ritrasse se stesso e insieme la tragedia di una disperata Umanità. Anche questo terzo romanzo sarebbe passato inosservato, tanto lontano era Svevo dalla narrativa italiana contemporanea, se non fosse stato per l’amico Joyce che pubblicizzò l’opera presso gli editori francesi e creò in Francia un “caso Svevo” la cui eco giunse ben presto in Italia dove Eugenio Montale, nel dicembre del 1925, pubblicava sulla rivista l’«Esame» quell’ Omaggio a Italo Svevo, che doveva costituire la rivelazione dello scrittore al pubblico e alla critica del bel Paese. Egli viene così ormai considerato uno dei più importanti scrittori europei, colui che insieme a James Joyce, Marcel Proust e Virginia Woolf, ha contribuito a rivoluzionare il romanzo europeo per la presenza, in particolare, di quel monologo interiore, flusso della coscienza, che è espressione tragica dell’uomo moderno. Nel pieno del successo, ironia beffarda, Italo Svevo morì il 13 settembre del 1928, quando si apprestava a scrivere il suo quarto romanzo, Il vecchione, a causa di un incidente stradale avvenuto a Motta di Livenza, nei pressi di Treviso.