Salute mentale, il disturbo paranoide: chi con un chiodo fisso in testa, scruta e indaga

L'approfondimento della dott.ssa Valentina Clementi, richiesto dall'Istituto di Neuroscienze di Reggio Calabria

Nel linguaggio quotidiano il termine paranoia è spesso usato per definire una condizione in cui una persona si ritiene perseguitata da qualcuno o qualcosa, o ancora, per connotare persone più semplicemente caratterizzate da forte ansia e apprensione, intendendo quindi la “paranoia” come una forma marcata di paura o angoscia. Tuttavia, in alcuni casi tale condizione si esprime con tale intensità e pervasività da acquisire le caratteristiche di un vero e proprio disturbo, il “disturbo paranoide di personalità”, introdotto per la prima volta nel 1921 da Kraepelin, per descrivere quei soggetti in cui erano presenti false credenze, in assenza di un chiaro deterioramento delle facoltà psichiche.

Il disturbo paranoide di personalità

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Inizialmente il disturbo paranoide di personalità venne incluso nello spettro della schizofrenia e solamente nel 1968, con il DSM II, venne inquadrato come disturbo a sé stante e descritto con le caratteristiche con cui viene inteso tutt’oggi, ovvero l’ipersensibilità, la rigidità, l’esagerata diffidenza e importanza di sé e la tendenza a biasimare gli altri attribuendogli malevole intenzioni. Sfiducia e sospettosità sono quindi le caratteristiche cardine di chi soffre di questo disturbo che è portato costantemente ad agire in modo cauto e guardingo e ad apparire agli altri freddo e privo di sentimenti; al contrario, se sceglie di intraprendere una relazione, può mostrarsi morbosamente geloso e sospettare, talvolta per fattori senza significato, ma prevalentemente in totale assenza di riscontri, che il partner gli sia infedele.

Anche i rapporti sociali sono estremamente complessi poiché questi soggetti appaiono costantemente permalosi e polemici e sempre pronti a contrattaccare quando ritengono di essere criticati o maltrattati. Queste modalità di comportamento provocano marcate alterazioni in tutte le aree del funzionamento ma soprattutto nell’area relazionale, che viene partecipata prevalentemente con sentimenti negativi (rancore, ostilità) che causano un sempre più doloroso isolamento che rafforza e aggrava il disturbo stesso.

L’incidenza del disturbo paranoide di personalità varia dallo 0,5 al 2,5% della popolazione ed è più frequente nei maschi. Può manifestarsi per la prima volta nell’infanzia e nell’adolescenza con tendenza alla solitudine, difficoltà nelle relazioni con i pari, ansia sociale, e scarso rendimento scolastico. Questi bambini risultano spesso “strani” ai loro coetanei e possono facilmente essere oggetto di derisione. Ad oggi, le cause del disturbo sono ancora poco chiare ma gli studi propendono per una eziologia multifattoriale, determinata cioè da fattori biologici, psicologici e ambientali, con maggiore riscontro nelle famiglie in cui è presente una storia di disturbo delirante o schizofrenia.

Tra i fattori ambientali è frequente il riscontro di esperienze di maltrattamenti durante l’infanzia che, in età adulta, si traducono nella forte sensibilità all’esclusione, ai pettegolezzi, alle offese, agli scherzi e nella tendenza ad evitare qualsiasi forma di intimità.

Il desiderio di controllare gli altri, cuore della paranoia, deriva da una bassa autostima. La persona si sente profondamente insicura, debole e incapace. L’atteggiamento grandioso spesso osservato può essere visto come una forma di difesa per compensare queste insicurezze.

Akhtar scrive:

“Esternamente gli individui paranoidi appaiono esigenti, arroganti, diffidenti, impulsivi, non romantici, moralisti e particolarmente attenti all’ambiente esterno. Internamente sono invece spaventati, timidi, dubbiosi ,ingenui, sbadati, sensibili all’erotomania e cognitivamente incapaci l’insieme degli eventi reali”.

Con queste premesse è facile chiedersi: è possibile aiutare un paranoide? In genere le persone che soffrono di questo disturbo non cercano spontaneamente aiuto, ma sono i parenti ad insistere perché venga all’attenzione di uno specialista della salute mentale spesso motivati dallo stato ansioso o depressivo del soggetto o per agiti aggressivi.

La prognosi non è mai molto buona perché anche se l’esordio avviene nelle prime fasi di vita, il paziente giunge all’osservazione dello specialista non prima dell’età adulta. La terapia farmacologica può essere suggerita per il contenimento dei disturbi del pensiero e la stabilizzazione tono dell’umore specie in caso di importante ritiro sociale o idee suicidarie, ma il trattamento d’elezione è rappresentato dalla psicoterapia seppur esista il rischio di rottura dell’alleanza terapeutica a causa della diffidenza e sospettosità del paziente che lo rende più propenso al contraddittorio e alla polemica che al confronto e al dialogo.

Il primo passo nel lavoro con questi pazienti è senza dubbio la ricerca di un rapporto di fiducia, poi è fondamentale far sì che vengano prese in considerazione interpretazioni alternative alle percezioni e situazioni che vive il soggetto senza mettere direttamente in discussione la sua visione delle cose, almeno inizialmente. Lavorare poi sul riconoscimento dell’aggressività e della rabbia che prova costantemente è sicuramente una buona prospettiva per creare una valida alleanza terapeutica e una prospettiva di miglioramento il cui obiettivo finale è quello di migliorare la qualità di vita della persona, rispettando le sue esigenze e le sue priorità.

della dott.ssa Valentina Clementi– Articolo richiesto dall’Istituto di Neuroscienze di Reggio Calabria