Salute mentale e i suoi disturbi: dalla sintomatologia alla diagnosi

L'approfondimento del dott. Rocco A. Zoccali, dell'Istituto di Neuroscienze di Reggio Calabria, nel nuovo appuntamento della rubrica dedicata alla salute mentale

Il DSM 5 TR (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali) in riferimento al concetto di disturbo mentale riporta quanto segue:

“Un disturbo mentale è una sindrome caratterizzata da un’alterazione clinicamente significativa della regolazione delle emozioni o del comportamento di un individuo, che riflette una disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi che sottendono il funzionamento mentale”.

In riferimento alla definizione sopra riportata dobbiamo chiederci cosa si intenda per “sindrome” e per “clinicamente significativa della regolazione delle emozioni e del comportamento”.

Il disturbo mentale: dalla sintomatologia alla diagnosi

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Per sindrome intendiamo in medicina un insieme di sintomi e segni clinici quali espressione di una o diverse malattie, indipendentemente dall’eziologia che le ha determinate, spesso sconosciuta o multifattoriale.

È evidente quindi, la differenza dal termine “malattia” che implica:

  • la conoscenza della causa della patologia;
  • un insieme di sintomi e segni ben definiti in coerenza tra loro;
  • una correlazione con l’alterazione anatomica sottostante.

Cosa sono i sintomi e i segni?

I sintomi sono sensazioni soggettive, correlate ad un qualche disturbo o malattia che, percepite dal paziente, sono riferite al medico e non possono essere obiettivabili.

I segni sono dati oggettivi rilevati dal medico attraverso un esame clinico e/o strumentale.

In psichiatria e in psicologia clinica, la diagnosi è alquanto complessa per una serie di fattori.

Preso atto quindi che le patologie mentali sono “sindromi” che si esprimono con un insieme di sintomi e segni ad eziologia multifattoriale,  una indubbia difficoltà sta nel riscontro dei “sintomi e segni” che fanno riferimento alle emozioni e al comportamento.

Scrive Jaspers:  “Noi vogliamo sapere cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono, vogliamo conoscere le dimensioni delle realtà psichiche. Oggetto del nostro argomento non è però tutto l’accadere psichico, ma solo quello patologico”.

I sintomi sono quindi espressione del  vissuto dell’essere umano e possono essere “comprensibili” o “incomprensibili, “primari” e “secondari” ( Jaspers);

I sintomicomprensibili” hanno un correlato nel vissuto di ognuno di noi. Chi non conosce l’esperienza della tristezza e dell’ansia? Se sufficientemente empatici non dovremmo avere difficoltà nel “comprendere” la sofferenza determinata dalla patologia depressiva o ansiosa.

I sintomiincomprensibili”, oltre a non esprimersi lungo un continuum che va dalla normalità alla patologia, trascendono la comprensione empatica, dal momento che sono “vissuti” di norma non presenti nel mondo interno di ciascuno di noi. E’ sufficiente ad esempio, fare riferimento alle allucinazioni, alle idee ossessive, ai deliri bizzarri.

I sintomi “primari” sono dovuti all’azione diretta del processo morboso.

I sintomi “secondari”  insorgono successivamente come conseguenza del processo primario; un esempio potrebbe essere, come evidenziato da Jaspers, l’ebrezza “ sintomo primario” dovuta agli effetti dell’alcool, e la modificazione psichica permanente “sintomo secondario”  dell’alcolista cronico.

Altra difficoltà diagnostica sta nella comprensione del concetto “clinicamente significativo” dei sintomi e del comportamento, significatività che  viene determinata dallo psichiatra attraverso un colloquio, momento fondamentale per giungere alla diagnosi.

Il colloquio psichiatrico è estremamente complesso per una serie di fattori.

Il paziente potrebbe:

  • non riconoscere i propri sintomi per mancanza di “insight” (consapevolezza) come nella schizofrenia o nel disturbo delirante. In questi casi spesso sono i familiari che inducono il soggetto a sottoporsi alla visita psichiatrica.
  • Non accettare i propri sintomi per un sentimento di vergogna dovuto allo stigma sociale.
  • Non riferire la propria sofferenza o determinati comportamenti per il timore di un giudizio negativo.
  • Non essere in grado, per limiti cognitivi e/o culturali, di esprimere adeguatamente le proprie emozioni e comportamenti.

Di fronte a tali problematiche, nell’incontro con il paziente, come sostenuto da Glen O. Gabbard, il compito dello psichiatra “è quello di trasmettere che il paziente viene accettato, valutato e considerato come una persona unica con problemi propri. Gli psichiatri che cercheranno di immergersi empaticamente nelle esperienze dei pazienti, favoriranno un legame con loro”. 

Per comprendere la patologia che il paziente porta nell’incontro, lo psichiatra deve ascoltare il paziente, comprendere quello che dice e quello che non vuole dire, fare attenzione al timbro della voce, alla posizione del corpo, all’espressione del viso, allo sguardo, dal momento che la comunicazione non verbale è fondamentale. Preso atto della storia clinica del soggetto, dei suoi vissuti, di quanto riferito anche in successivi colloqui, lo psichiatra pone la diagnosi facendo riferimento ad un proprio prototipo diagnostico che si è venuto a formare negli anni nella propria mente attraverso lo studio del DSM ( Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali), l’aggiornamento continuo, l’incontro con i colleghi nei vari congressi ma, soprattutto, la continua esperienza nell’incontro con i pazienti, con la loro sofferenza, con la loro storia.