Gratteri e l’infanzia a Gerace: ‘Devo molto a mia madre, se non fosse stato per lei…’ – VIDEO
Il procuratore di Napoli racconta i primi contatti con la violenza mafiosa, il ruolo della famiglia e il valore dell’antimafia. Il dialogo con Antonio Nicaso
24 Settembre 2025 - 15:38 | di Redazione

Un’aula televisiva, una storia personale. Nel dialogo con Antonio Nicaso a “Lezioni di Mafie”, Nicola Gratteri ha ricordato il legame con la sua terra e il valore della fatica manuale narrando la sua infanzia a Gerace, provincia di Reggio Calabria. Una terra alla quale è rimasto legato a doppio filo per lunghi anni, anche come procuratore di Catanzaro, prima del trasferimento a Napoli.
“Andando tra i campi – narra il magistrato all’inizio dell’intervista – ti rilassi e torni in una dimensione possiamo dire umana rispetto alle giornate intense di discussione, di tensione, di lotte, di gente che ti sta davanti e recita e tu devi far finta che non hai capito che lui sta recitando e lui è convinto che ti sta convincendo e quindi devi controllare la mimica facciale e questa è tensione, accumuli, allora poi hai bisogno di sporcarti le mani”.
L’infanzia di Nicola Gratteri: la scoperta della violenza a Locri
Nicaso ha ricordato l’inizio della loro amicizia e ha chiesto quando Gratteri si fosse accorto per la prima volta della presenza della criminalità organizzata:
“Noi ci conosciamo dal 1983 quando io sognavo di fare il giornalista e tu sognavi di fare il magistrato, avevi appena finito mi pare l’università a Catania e da allora è passato tantissimo tempo ma quando è stato il primo momento che ti sei accorto che c’era questa organizzazione criminale nella zona in cui noi siamo cresciuti?”.
Il procuratore non ha tentennamenti, ricorda esattamente il momento in cui ha appreso della presenza della malavita nella sua terra natia:
“Io mi sono accorto quando frequentavo le scuole medie a Locri quindi a nove chilometri da qui, da dove siamo ora, da Gerace. Durante il viaggio ho visto dei morti a terra, ammazzati, da davanti a scuola ho visto i figli dei capi mafia comportarsi da piccoli mafiosetti e quella prepotenza, quell’arroganza, quella violenza non l’accettavo, non la capivo, non la sentivo. C’erano chiodi, c’erano vetri, pietre, e quindi ho subito visto questa violenza”.
Mestieri estivi e competenze preziose
Gratteri ha ricordato il lavoro manuale, obbligo per i ragazzi di allora e occasione di apprendimento che si è rivelata utile anche nella sua carriera da magistrato:
“Tornando da scuola dovevamo aiutare prima in campagna e poi in estate si doveva andare dal mastro. I bambini all’epoca non potevano stare senza fare nulla per tutta l’estate, dovevano avere per forza un impegno. Ho iniziato, ricordo, il primo anno a 6 anni mi mandavano dal mastro ciabattino, che si chiamava Pietro Scascio, ricordo aveva dei baffi incredibili. Poi ho fatto altri mestieri in estate, ho fatto il falegname, il barbiere, il sarto, ma la cosa che mi piaceva di più è quando ho fatto il meccanico e il carrozziere. Quando ho iniziato a fare il giudice civile al Tribunale di Locri mi arrivavano le prime cause da incidente stradale. Io, avendo fatto il carrozziere, avendo fatto il meccanico, capivo dall’elenco dei pezzi che dovevano cambiare se l’incidente era falso o meno, capivo la dinamica dell’incidente e questo perché avevo avuto l’esperienza di fare il meccanico e di fare il carrozziere”.
La famiglia come argine alla criminalità
Il legame con i genitori, in particolare con la madre, è stato decisivo per la direzione della sua vita:
“Se non fosse stato per i miei genitori, in particolare per mia madre, io oggi potevo tranquillamente essere uno ’ndranghetista, essere un capomafia. Quindi la famiglia è fondamentale”.
Crescere in Calabria e comprendere la ’ndrangheta
Gratteri ha spiegato anche come il contatto diretto con la vita quotidiana nella Locride gli abbia permesso di capire a fondo la mentalità mafiosa:
“L’aver vissuto appieno la quotidianità, la strada, i marciapiedi, la vita reale ti fa crescere prima e ti fa capire e ti aiuta poi nella vita. Se io non avessi fatto la vita che ho fatto, se io non fossi nato in Calabria, non avrei capito appieno la filosofia criminale della ’ndrangheta, l’humus che non è solo un reato fine a se stesso ma è un modo di vivere, un modo di essere”.
Raccontare anche l’antimafia
Nicaso ha ricordato che quando si parla di Sud si cita sempre la mafia, ma raramente la storia dell’antimafia:
“Sai cosa mi indigna di più – ha detto il giornalista al magistrato – quando parlano della Calabria, della Sicilia, della Campania ricordano sempre il problema della mafia, della ’ndrangheta e della camorra, ignorando che anche l’antimafia è nata in queste terre e c’è tanta gente che sacrifica la propria vita per combattere”.
Gratteri non ha esitato nel rispondere:
“È anche colpa nostra che non l’abbiamo saputa narrare o voluta narrare, siamo stati passivi quando altri hanno fatto una narrazione a senso unico. Nel libro Non chiamateli eroi abbiamo inserito, oltre ovviamente a Falcone, Borsellino, Puglisi, abbiamo anche parlato ad esempio di Rocco Gatto, un mugnaio di Gioiosa Ionica che è morto sapendo di morire. Ha avuto il coraggio di non abbassare le serrande quando la domenica mattina la ’ndrangheta ha imposto a tutti i commercianti di chiudere. Lui ha detto no ed è andato subito dal capitano dei Carabinieri di Roccella Ionica per denunciare e lì ha firmato la sua morte. Viaggiava in giro a vendere la farina con il suo furgone, aveva sì il fucile sul sedile anteriore destro ma non ha fatto in tempo a difendersi, dietro un cespuglio è stato ammazzato. Questo è il grande valore dell’uomo, muori sapendo di morire per un’idea, per un ideale, per non abbassare la testa. Dobbiamo essere noi calabresi a raccontare la nostra storia in modo reale, senza addolcirla, senza infiocchettamenti, ma raccontare la storia vera”.
Siderno e il boss dei due mondi
Il dialogo ha toccato anche la figura di Antonio Macrì, detto “u zì Tonì”, storico capo di Siderno.
“In Canada quando si parla di mafia si fa riferimento alla nostra zona, la Locride – ha ricordato Nicaso. Di Siderno era Antonio Macrì, u zì Tonì, ucciso nel 1975. Lo chiamavano il boss dei due mondi perché riuscì a creare un’organizzazione con radici in Canada, in Australia, negli Stati Uniti e in tante altre parti del nostro Paese. Quando venne ucciso nel 1975, io ho delle foto che abbiamo pubblicato in un libro in cui migliaia di persone furono presenti a quel funerale e molti vennero dall’oceano. Tu se non sbaglio sei stato compagno di scuola della figlia di Antonio Macrì”.
Gratteri ha ammesso di ricordare quel funerale, a cui presero parte almeno 30 mila persone:
“La figlia è venuta a scuola con me, una ragazza dolcissima, educatissima. Ho questo ricordo di lei, sempre con un velo di malinconia, che non sorrideva come le altre ragazze della sua età. Perché appunto nelle famiglie di ’ndrangheta non c’è felicità, c’è sempre tensione. Nelle famiglie dei capi mafia c’è ricchezza, c’è sfarzo, tutto è eccessivo, ma dentro c’è tanta tristezza perché raramente vivono giorni felici. Queste famiglie, soprattutto quelle patriarcali, hanno due o tre morti, due o tre ergastolani. Non è una bella vita nelle famiglie di ’ndrangheta”.
Donne e imposizioni
Il tema si è spostato anche sul destino delle donne nelle famiglie mafiose.
“Non puoi fare quello che vuoi – ha ricordato il giornalista – perché spesso ti dicono quello che devi fare. Il lavoro te lo indicano loro. È la stessa cosa che succede con certe donne di ’ndrangheta che non possono sposare l’uomo che amano ma devono rispettare una logica di politiche matrimoniali”.
Il procuratore ha confermato, ripercorrendo anche le documentazioni raccolte in alcune indagini:
“Noi abbiamo ascoltato molte intercettazioni telefoniche e ambientali di ragazze disperate che piangevano perché non volevano sposare quell’uomo, perché non lo amavano, perché amavano un altro ragazzo. Non è una bella vita. Sul piano documentale fino a dieci anni fa abbiamo queste prove, oggi di meno. Oggi le donne anche all’interno della ’ndrangheta sono più emancipate, sono più inserite sul piano sociale. C’è una forte accelerazione delle famiglie mafiose, intese in senso stretto, nella società contemporanea e nella vita di relazione. Ma questo accade in Calabria come al centro di Milano”.
Il filo rosso
Dalla campagna alla toga, il percorso di Gratteri unisce fatica, ferite viste da vicino e responsabilità pubblica. Il dialogo con Nicaso restituisce un’idea semplice: capire la mafia significa conoscere la vita reale di chi l’ha incrociata presto e ha scelto di starle contro. In Calabria, e ovunque.