Calabria, viaggio nei reparti Covid. Il racconto di un'infermiera: 'Assisto pazienti come fossero parenti'

"Quando a fine turno vedo i segni della mascherina, penso 'Ho fatto la scelta giusta'". La testimonianza di Gilda infermiera dell'ospedale di Cetraro

I mesi passano, ma la pandemia continua. Alle porte del 2021, l’Italia, e più in generale il mondo intero, si trovano ancora a combattere contro il Covid-19. L’unico spiraglio di luce proveniente da questo infinito tunnel nero è il vaccino.

Fra le dispute al Governo e dei cittadini che vorrebbero maggiori libertà in occasione delle festività natalizie, c’è anche chi, avendo vissuto sulla propria pelle l’incubo della malattia fra i reparti del Covid, ha deciso di raccontare la propria esperienza diretta.

La testimonianza di Gilda, infermiera Covid

“Non è semplice spiegare le sensazioni che sto vivendo in questi giorni e nessun libro sul quale ho studiato spiega come assistere questi pazienti. Li assisto come se fossero parte della mia famiglia poiché sono lontani dai loro affetti e tanti di loro moriranno in solitudine”.

Gilda Bevilacqua, in un post pubblicato sul suo profilo Facebook qualche giorno fa, racconta una cruda verità.

“Il 27 novembre durante il mio solito turno di mattina nel reparto di medicina, all’improvviso una strana forza mi spinge a prendere il telefono. Io che mi ritengo atea ancora non so dare una spiegazione a quella strana forza che mi ha spinto a fare ciò che ho fatto. Ho chiamato la responsabile del personale infermieristico per chiedere se avessero bisogno di un’infermiera nel reparto Covid-19. Dopo 2 ore il mio trasferimento è diventato esecutivo”.

È così che inizia la maggior parte delle storie dei volontari che sin dal mese di marzo si trovano in prima linea per salvaguardare la salute altrui.

“I miei colleghi della medicina lo hanno interpretato come un tradimento da parte mia (adoro ognuno di loro e sento tanto la loro mancanza). La cosa più difficile che ho dovuto fare è stata allontanarmi improvvisamente dalla famiglia che mi ospita nei giorni in cui sto a Cetraro. Niente rapporti con loro, vivo come una reclusa, arrivata a casa non esco più, in modo da limitare al massimo il contagio di spazi comuni in caso di una mia positività”.

Il primo turno “scioccante”

Parlare del virus che ha fatto migliaia di vittime solo in Italia è una cosa, viverlo sicuramente un’altra. Ed a confermarlo è proprio l’infermiera dell’ospedale di Cetraro (CS).

“Il mio primo turno in Covid-19, scioccante! Nel momento in cui ho indossato la tuta e coperto ogni parte del mio corpo tutta l’adrenalina che avevo in corpo è scomparsa. Ogni passo che facevo dalla zona pulita al corridoio sul quale danno le stanze dei pazienti, la paura aumentava. L’unico pensiero che mi girava nella testa era “Riuscirò a prendermi cura di questi pazienti?”

Mentre la mia collega mi parlava dei piani di lavoro su i turni, la mia attenzione è stata attirata dai suoni di allarme dei vari respiratori in uso sui pazienti, dal suono del campanello di un paziente. Poco mi interessava sapere, in quel momento, dei piani di lavoro. A me interessava sapere di cosa avesse bisogno il paziente che suonava.

Quando sono entrata nella stanza, in cui sono presenti 2 pazienti divisi tra loro da un muro), mi trovo difronte a una nonnina, (quasi uguale per conformazione fisica alla mia nonna), che con gli occhi pieni di lacrime mi chiede un sorso d’acqua. La principale richiesta dei pazienti nei giorni a seguire è stata di aiutarli a bere. Tanti di loro indossano un casco trasparente nel quale viene pompato ossigeno e bere da soli non è possibile”.

La vestizione ed il rischio di contagio

“Al mio secondo turno ho indossato la tuta idrorepellente per 6 ore. Quando l’ho tolta, la divisa che indossavo sotto era tutta bagnata di sudore.

Bisogna svestirsi di fronte ad uno specchio in modo da poter vedere le azioni che si compiono durante la svestizione e non sbagliare sequenza per non trasferire il virus dalla tuta alla divisa. Quando mi sono tolta la mascherina e mi sono guardata allo specchio, vedendo i segni lasciati sul mio viso dalla mascherina, mi sono detta “Ho fatto la scelta giusta”.

E quando qualcuno mi chiede se mi sono pentita della mia scelta di andare ad assistere i pazienti covid-19, io rispondo “No””.

Il confronto con la morte

“In 10 giorni sono morti 4 pazienti. Uno di loro quando è arrivato indossava la maglia del pigiama della moglie, perché il suo ricovero era avvenuto così frettolosamente che la moglie nel trambusto non riusciva a trovare il suo pigiama. Era così orgoglioso di indossare il pigiama della moglie con i fiori sulla maglia. È morto la scorsa notte, a tenergli compagnia il pigiama della moglie e anche l’unico effetto personale con il quale sarà sepolto. Ad infettarlo la visita a casa di un nipote.

Se ho scritto questo è perché voglio far capire a chi sprecherà qualche qualche minuto a leggere, che anziché andare a trovare i propri cari per gli auguri di Natale, sarebbe meglio stare a casa e fare una telefonata per augurare loro tanta salute”.