Criminalità socializzata: la sfida culturale contro l’autonarrazione delle mafie 4.0
"Claudio Cordova, con la sua consueta onestà intellettuale, ci offre uno strumento per leggere il presente e per non rassegnarci"
29 Maggio 2025 - 10:45 | di Valentina Mallamaci

Con Criminalità socializzata. Le mafie nei social network. Dai pizzini ai post, Claudio Cordova va oltre il suo consueto giornalismo d’inchiesta e squarcia il velo dell’abitudine, offrendo un racconto del fenomeno mafioso che mette alla prova la nostra capacità di comprenderlo al di là della retorica dominante, dietro cui abbiamo costruito un’illusoria distanza di sicurezza.
La tipica scrittura tagliente di Cordova ci consegna un manifesto sociale lucido ed intransigente che associa alla denuncia una richiesta urgente di cambiamento culturale.
Criminalità socializzata ci costringe a vedere le mafie per ciò che oggi sono realmente: non solo fenomeni criminali, ma un sistema di potere fluido, capace di adattarsi, di mutare linguaggi e strumenti, fino a mimetizzarsi nel cuore della nostra quotidianità.
Dai pizzini a TikTok: le mafie diventano un brand
La trasformazione è radicale: non si tratta più solo di violenza, intimidazione o di utilizzare i social network per operazioni logistiche e comunicazioni interne, ma di seduzione, storytelling, propaganda.
«Le mafie sono ormai un brand», scrive l’autore, «e i social sono il loro nuovo strumento di propaganda. Nessun intermediario, solo auto-narrazione».
Ecco allora che Facebook, Instagram e soprattutto TikTok diventano piattaforme in cui costruire un’identità criminale che si trasmette attraverso modelli di comportamento apparentemente “vincenti”. Piattaforme che fanno da palcoscenici di una rappresentazione studiata, dove i giovani affiliati ostentano ricchezza, potere, “rispetto”, costruendo una retorica seduttiva che spesso anticipa la violenza reale.
Ma il libro va ben oltre l’analisi dei nuovi strumenti. Mette al centro la questione culturale, ricordandoci che le mafie non sono solo organizzazioni criminali: sono un potere sociale, economico, simbolico. E come ogni potere, si nutrono di consenso, di fascinazione, di rappresentazioni condivise. Le mafie oggi, scrive, non hanno più bisogno solo di intimidire: riescono a influenzare, a orientare il pensiero, a normalizzarsi attraverso una presenza quotidiana e insinuante. A questo punto la vera minaccia non è (solo) la violenza, ma «l’assuefazione» collettiva, «il rischio reale che intellettuali, studiosi, associazioni non si accorgano più che le mafie esistono ancora». Lì dove lo Stato arretra, dove la scuola non arriva, dove il dibattito pubblico è semplificato o folkloristico, la mafia si infiltra e si impone. È camaleontica, si adatta, cambia pelle e il mondo dell’informazione non solo fatica a starle dietro, ma spesso è parte del problema.
Il giornalismo sotto accusa: “parla della realtà come fosse finzione”
Qui si innesta la bruciante riflessione di Cordova sul giornalismo contemporaneo che, da osservatore interno, vede perdere sempre più quella essenziale funzione critica: travolto dalla logica dell’intrattenimento, dal protagonismo autoreferenziale e da un’ansia di consenso travestita da neutralità, perde autorevolezza e il ruolo fondamentale di «cane da guardia della democrazia». I tg italiani, accusa Cordova, «parlano della realtà come se fosse finzione e della finzione come se fosse realtà». In un passaggio che suona come un atto d’accusa ma anche un appello alla professione, l’autore scrive:
«Mentre la criminalità organizzata parla a tutti, la riflessione e lo studio su di essa o parlano solo agli specialisti, oppure a nessuno».
È una verità disarmante. La mafia sa comunicare e lo fa con strumenti nuovi, linguaggi calibrati, ambiguità ricercate. E il giornalismo? Omette e si autocensura davanti al volto sofisticato della nuova criminalità dei colletti bianchi? Sicuramente, ribadisce Cordova, senza un dibattito adeguato che aiuti il cittadino ad orientarsi per smascherare le metamorfosi mafiose, si allontana anche la possibilità che la criminalità organizzata torni al centro dell’agenda politica.
Dunque, non basta l’azione repressiva, serve una risposta culturale. Cultura della legalità e della consapevolezza. E serve un giornalismo che non insegua il consenso, ma la verità. Una vera rivoluzione educativa che parta dal linguaggio, dalla capacità di svelare l’implicito mafioso, il “non detto” che governa intere comunità.
Perché, come scrive Cordova, «anche i silenzi sono comunicazione. Ogni gesto assume un significato. È più che miope considerare le mafie come qualcosa di sganciato dalla realtà e dalla società».
Eppure, nonostante il quadro allarmante, il libro tra pagine forti e commoventi mostra anche un’altra faccia: quella delle donne di ‘ndrangheta che hanno deciso di spezzare la catena della criminalità sfidando il sistema patriarcale per salvare sé stesse ma soprattutto i propri figli. Sono loro, oggi, a operare «un meccanismo inverso di quel familismo amorale» di cui le mafie si nutrono. È in queste scelte, dolorose e coraggiose, che si intravede un futuro diverso.
Criminalità socializzata è, in definitiva, un libro necessario che informa, scuote e provoca fino ad esigere una coraggiosa assunzione di responsabilità da ciascuno di noi.
Claudio Cordova, con la sua consueta onestà intellettuale, ci offre uno strumento per leggere il presente e per non rassegnarci. Ed è per questo che il suo lavoro va letto, discusso, condiviso. Perché le mafie, come ci ha insegnato Giovanni Falcone, sono un fenomeno umano, e come tale hanno avuto un inizio, un’evoluzione e avranno una fine. Ma quella fine, e qui sta il cuore del libro, dipenderà dalla nostra capacità di riconoscerle per ciò che sono davvero e non per come ci fa comodo pensarle.