Da Reggio all'Ucraina: storie di guerra, paura e speranza. "Stiamo vivendo un incubo"

Irina, Lesia e Constantin. Tre ucraini 'reggini' che raccontano le loro storie in un momento drammatico

La guerra non avvisa, ne chiede permesso. E’ brutale con la sua violenza, che non fa distinzioni di alcun tipo. L’alba del 24 febbraio è in realtà il tramonto sull’umanità, sulla speranza che la Russia non passasse veramente dalle minacce ai fatti. Così, purtroppo, non è stato. Da una settimana ormai proseguono gli scontri in Ucraina, sette giorni di costante apprensione e paura per tutto il mondo, con particolare riferimento a chi vive in quelle terre.

Un sentimento misto di impotenza e ansia anima chi in quelle terre ci è nato, ha vissuto, e ancora oggi ha famiglia e parenti. Ma oggi vive altrove, e osserva con terrore quello che accade in Ucraina. Ogni minuto si dilata all’infinito nel tempo, quando le lancette sono scandite dall’angoscia

A Reggio Calabria la comunità di ucraini è numerosa e attiva, come dimostrato negli ultimi giorni, con una ondata di solidarietà che ha coinvolto anche reggini e associazioni. Tra i tanti, giovani e meno giovani, che da giorni si sono adoperati per indumenti, cibo e medicinali presso la Chiesa Ortodossa di San Paolo dei Greci, ci sono Lesia, Irina e Costantin.

Le storie sono diverse, a seconda della città di provenienza. C’è chi, al momento, può tirare un piccolo sospiro di sollievo, perchè la famiglia vive in luoghi ad oggi ‘tranquilli’. C’è invece chi vive un incubo costante, h 24, nel timore che dal cielo arrivi la peggiore delle notizie possibili.

“La mattina del 24 febbraio è stata la peggiore della mia vita. I messaggi sul cellulare mi hanno svegliata, avvisandomi del primo attacco su Kyiv, la mia città. La mia famiglia si è subito spostata verso il confine con la Romania e la Polonia. Alcuni miei cari amici sono rimasti a Kyiv, dormono nei corridoi. Non tutti possono andare nelle stazioni metropolitane, o perchè distanti da raggiungere a piedi, o a causa del freddo”, racconta Lesia.

Numerose e impellenti le necessità nei luoghi di guerra, la capitale Kyiv e Kharkiv i due epicentri degli scontri. “In alcune città sono saltati i punti di accesso ed è impossibile fare arrivare gli aiuti. Ci sono persone che hanno bisogno di cure, medicinali, neonati che necessitano di assistenza. Una situazione tremenda”, racconta la giovane ucraina, ormai da diversi anni stabilitasi a Reggio Calabria.

Scarseggiano giubbotti antiproiettile e caschi militari, la popolazione maschile è scesa compatta in strada per combattere. “Lo fanno anche i miei parenti, hanno imparato a costruire ed utilizzare bombe molotov. Il nostro esercito è forte e istruito. Soluzioni e via d’uscita? Solo un golpe contro Putin a mio parere. Chi è accanto al presidente russo, dentro il Cremlino, può e deve agire per fermare questo orrore”, il pensiero di Lesia, che ha nel cuore il desiderio di tornare presto a Kyiv, appena possibile. “Mi manca casa, complice la pandemia non sono potuta tornare negli ultimi anni. Cosa dice la mia famiglia? Prova a tranquillizzarmi, a farmi sorridere. Sono più forti di me, ce la faranno”, racconta, facendo spuntare un sorriso.

Lesia
Lesia

Leopoli è una città dell’Ucraina occidentale, a circa 70 km dal confine con la Polonia. Lì si sta trasferendo in queste ore l’ambasciata italiana, lì un birrificio si è convertito a ‘fabbrica’ di molotov, al grido di “Faremo di tutto per vincere questa guerra”. Di Leopoli è Irina, una delle tante persone che negli ultimi giorni si è impegnata con determinazione nel raccogliere gli aiuti destinati alla sua terra.

“Noi stiamo vivendo la guerra in seconda persona, i nostri cari in prima. Li sentiamo ogni giorno, quasi ora, sentirli piangere è terribile. Abbiamo familiari che li chiamano per andare a difendere la nazione, e lo fanno con coraggio e amore verso l’Ucraina. Ai russi vorrei dire che aiutare non significa ammazzare o bombardare, spero che tutte le donne russe possano far ragionare i loro uomini. Nessuno vorrebbe una guerra di questo tipo, una tale sofferenza per tutti. Speranza? Solo che finisca tutto al più presto. E’ tutto troppo brutto per essere vero”.

Irina
Irina

 

Tra i racconti che suscitano maggiore empatia e trasudano dolore c’è quello di Costantin, un ragazzo ucraino che fatica a trovare spiegazioni per quanto sta accadendo in Ucraina.

“Ho la famiglia, i parenti e gli amici in quei luoghi. Mio zio ha perso 2 case a causa dei bombardamenti. E’ una guerra vera e propria, anche se la Russia non la vuole chiamare cosi. Ci sono morti, disperazione, bambini che soffrono. In questo momento c’è il desiderio di vivere solo per dare una mano a tutti”.

Dare un supporto da lontano è l’unico sollievo per chi vorrebbe trovarsi a migliaia di chilometri. Nella sua terra, a combattere assieme ai suoi connazionali. “Mi sento colpevole, cerco di aiutare da qui in tutti i modi. I miei parenti e amici sono al fronte, a difendere l’Ucraina. La guerra ci ha unito come popolo. Faccio un appello a tutti: dateci una mano, perchè nessuno viva quello che stiamo vivendo noi in questi giorni”.

I racconti si intersecano in pause dall’impegno che li vede coinvolti alla Chiesa ortodossa, mentre chiunque attorno è indaffarato a sistemare pacchi, organizzare scatoloni in base al tipo di aiuto (medicinali, cibo, indumenti) che dovrà essere inviato in Ucraina. Un carico di solidarietà, unione che vuole rappresentare anche vicinanza e sostegno nel momento del dolore. Nei camion diretti nei luoghi di guerra trova spazio la speranza, anche se flebile, mentre i silenzi si mescolano perchè non trovano parole adatte per smentirlo.

Costantin
Costantin